L’economia italiana ed europea va incontro a una brusca frenata. Le stime dei principali previsori internazionali sono chiari. Decimali più, decimali meno, tutti vedono un forte rallentamento della crescita nel 2023.
Il Pil dovrebbe salire nel nostro Paese meno dell’1%, del 0,9% secondo la Commissione Europea, del 0,7% secondo il Fondo Monetario Internazionale. Ma lo scenario cambia in fretta, almeno quanto il prezzo del gas e delle altre materie prime, che è alla base dell’incertezza che attanaglia le previsioni.
La possibilità di una vera e propria recessione è quindi ben presente. Come si usa dire, e mai come oggi probabilmente è vero, si naviga a vista.
A fare incrementare o diminuire il Prodotto Interno Lordo sono in primis i consumi e gli investimenti, ed è su questi che sono fissati gli occhi degli osservatori. Gli italiani, alle prese con un’inflazione che non ha eguali da metà anni ‘80 (del 9,1% in agosto), cominceranno a spendere meno? Lo stanno già facendo?
Vi sono vari indicatori che mostrano quale sia la capacità di consumare di imprese e famiglie.
Il reddito disponibile lordo è tra i più validi. Misura, in sostanza, quanto denaro vi sia a disposizione dopo il pagamento delle imposte e la ricezione eventuale di sussidi, qualsiasi sia la fonte di entrata, il lavoro, la rendita, la pensione, o altro.
Ebbene, secondo gli ultimi dati dell’Istat, che risalgono alla primavera di quest’anno, il reddito lordo disponibile totale delle famiglie italiano è arrivato a 304 miliardi e 196 milioni di euro. È il valore più alto registrato finora, in aumento rispetto ai 296,6 miliardi dell’ultimo trimestre del 2021 e a quello precedente, quando era stato superato il valore pre-pandemico e recuperato il crollo della primavera del 2020.
Ancora più importante, tuttavia, è un altro indicatore che dal reddito disponibile lordo deriva. È il potere d’acquisto delle famiglie, ovvero il reddito disponibile corretto per il valore dell’inflazione, quindi la quantità di beni e servizi effettivamente acquistabile in base all’andamento dei prezzi.
Tiene quindi conto più direttamente del carovita, che mai come oggi è importante. Non è un caso che oggi aumenti meno, passando, a livello aggregato, dai 280 miliardi e 618 milioni della fine del 2021 ai 281 miliardi e 546 milioni del 2022. Il peso dell’inflazione si sente.
E tuttavia siamo di fronte al potere d’acquisto più alto dal secondo trimestre del 2011, periodo dopo il quale cominciò a scendere, diminuendo in tre anni di circa 15 miliardi, ovvero indicativamente del 5%, sull’onda della recessione per la crisi dell’euro.
Dopo allora ricominciò a salire, ma molto lentamente, per crollare di nuovo nel 2020. Da allora si è ripreso, e questa volta in modo più netto, fino ai numeri di quest’anno.
A contribuire, oltre all’aumento del tasso di occupazione, che ha finalmente sfondato la soglia del 60,2%, anche le misure di sostegno ai redditi messe in atto per rispondere alla crisi pandemica.
L’intervento pubblico e la ripresa del 2021 hanno avuto un altro effetto, quello di mantenere alto il tasso di risparmio.
Come si sa negli ultimi anni era andato man mano a diminuire, rendendo lo stereotipo degli italiani grandi risparmiatori molto obsoleto.
Poi nel 2020, quando i consumi, resi quasi impossibili dalle chiusure, erano scesi ancora più dei redditi, il tasso di risparmio era balzato dal 7,8% della fine del 2019 al 19,2%. Era chiaramente un dato eccezionale, provocato da una situazione straordinaria, irripetibile.
Tuttavia con la graduale transizione verso la normalità questo indicatore non è tornato, come altri, ai livelli pre-pandemici, ma è rimasto notevolmente più alto. Naturalmente non si è più avvicinato al 20%, ma dopo essere sceso all’11,3% nel 2021 ha addirittura ripreso a salire, giungendo nella prima parte del 2022 al 12,6%, ovvero più di 4 punti più in alto che nel periodo pre-pandemico.
Vuol dire che le famiglie italiane, anche se in modo diseguale e, se vogliamo, squilibrato, hanno potuto mettere da parte risorse. Saranno preziose in questa fase di inflazione e di crisi in cui stiamo cadendo.
Il 12,6% è molto vicino al 12,8% del 2009, l’anno della prima recessione, quella seguita al fallimento di Lehman Brothers, e che precedette quella, più lunga e visibile, del 2011-2013.
Oggi, però, non sembriamo alle porte di una crisi dello stesso tipo, e in Europa vi è una maggiore consapevolezza della necessità di una reazione comune a ogni segnale di rallentamento della crescita.
Sappiamo bene che, tuttavia, non ci si può affidare solo alla capacità delle istituzioni politiche, nazionali ed europee. Per questo la resilienza dei conti delle famiglie è importante.
Ma dove va oggi questo risparmio? Qualcosa ci dice un ulteriore indicatore, il tasso di investimento, non a caso anch’esso a un livello record, il 7,2%, mai raggiunto dalla fine del 2010.
L’Istat considera in questa percentuale solo la quota del reddito lordo che va in acquisto di abitazioni e la loro manutenzione. Insomma, il solito mattone, che con il Superbonus e la ripresa dei prezzi dopo il lungo gelo dello scorso decennio ha trovato nuovo vigore.
Sarebbe uno spreco se tali risparmi, oltre ad assolvere la necessaria funzione di scudo contro l’inflazione e la crisi, venissero indirizzati solo verso il mercato immobiliare. O meglio, se l’aumento dei prezzi dovesse tenere lontani i risparmiatori solo da alcuni investimenti, quelli in fondo più produttivi, soprattutto in questo periodo.
Parliamo dell’iniezione di fondi nelle imprese innovative che si affidano, per crescere, anche al mercato dei capitali. Sono queste che, a differenza del mattone, possono garantire anche innovazione al sistema, oltre che maggiore capacità di crescita, perché solitamente in settori a maggiore valore aggiunto e più alto tasso di espansione.
Dato molto rilevante per il periodo, si tratta di aziende che sono meno energivore di quelle medie, perché nei servizi avanzati, nell’IT, e su cui l’aumento del prezzo del gas, per esempio, ha un impatto inferiore.
Un grande impatto, però, potrebbe averlo la carenza di questi capitali, e lo stiamo vedendo con il calo degli investimenti in Venture Capital ovunque nel mondo.
Di fronte a tale scenario i numeri sul risparmio degli italiani non possono essere ignorati. Rappresentano allo stesso tempo una speranza e uno sprone per fare in modo che oggi la finanza alternativa piuttosto che vittima sia ancora di salvataggio di un pezzo di economia.
In fondo durante la crisi pandemica è stato così. Si è trattato di una crisi molto peculiare, quella che ci attende appare più tradizionale, nonostante la novità dell’inflazione, più simile alle precedenti.
Nel 2011-13, però, il mercato dei capitali e degli investimenti in startup era decisamente più piccolo in Italia. Oggi è cresciuto molto, in particolare negli ultimi due anni.
Va allora aiutato a collegarsi a questo surplus di risparmio, perché possa essere utilizzato al meglio. Rafforzare l’ecosistema del Venture Capital e del Private Equity oggi sarebbe come costruire un gasdotto che colleghi un giacimento poco o male utilizzato a case e imprese affamate di elettricità. Oggi ce ne sarebbe bisogno più che mai.