Andrea Crovetto (ItaliaFintech): i fondi abbiano più coraggio e investano nelle imprese italiane

Gianni Balduzzi 27/11/2020

Dopo aver ricoperto posizioni apicali in Citibank, UniCredit e Intesa Sanpaolo, Andrea Crovetto ha messo la propria grande esperienza al servizio di un settore nascente, quello del Fintech, fondando nel 2014 Epic SIM, di cui è CEO, e contribuendo insieme ad altri imprenditori alla nascita di ItaliaFintech nel 2018. L’associazione, di cui per il 2020 Crovetto è anche Presidente, è un vero e proprio gruppo di lavoro che riunisce le più innovative aziende del Fintech operanti in Italia e promuove la conoscenza e la diffusione di soluzioni fintech presso i consumatori e le imprese, anche attraverso il dialogo continuo con le istituzioni e il regolatore.

Per questo abbiamo voluto incontrarlo per parlare dei cambiamenti in atto nel nostro Paese su questo versante.

Grazie per la possibilità di questo incontro, dottor Crovetto. Come vede questa fase economica? Quale impatto scorge sul mondo finanziario, sulle aziende e sulla loro propensione a cercare finanziamenti o equity?

L’evoluzione dei servizi finanziari ha portato a mio modo di vedere le aziende a cambiare il loro rapporto con la banca stessa, e ad iniziare a mettere in discussione il cosiddetto modello di “banca universale”.

Parte di questa evoluzione è legata da un lato alla regolamentazione, che esige che la banca si prenda meno rischi, e dall’altro alla tecnologia, che permette di offrire anche da remoto l’esperienza di taluni servizi bancari e consente di effettuare analisi finanziarie e creditizie sulla clientela anche molto sofisticate in tempi rapidi e a costi molto bassi.

Il combinato disposto di regolamentazione e tecnologia ha permesso l’ingresso sul mercato anche a operatori nuovi, non appartenenti al mondo della finanza tradizionale, in grado di veicolare verso le imprese capitali non bancari, provenienti da investitori istituzionali, quali ad esempio fondi d’investimento, compagnie di assicurazioni, etc.

Questo è estremamente importante per le imprese perché si crea un mercato molto più ampio di soggetti finanziatori, soprattutto in un’ottica di lungo periodo. Si parla non a caso di “capitale paziente”, visto che si tratta di investimenti anche della durata di 10 anni o più, al contrario del capitale delle banche, le cui regole impongono un orizzonte di medio periodo, perché più sono lunghi i finanziamenti maggiore è il rischio. C’è quindi un disincentivo per le banche nel fare investimenti a lungo termine. Un tempo era addirittura proibito alle banche commerciali. 

Probabilmente, la banca sarà sempre il pilastro e il punto di riferimento dell’impresa. La sfida oggi per il sistema bancario è continuare a porre al centro la relazione con il cliente e mettere a sua disposizione le soluzioni tecnologiche e di servizio sviluppate da operatori specializzati, fare da pivot. Deve stringere relazioni con questi operatori, non solo nel campo dei finanziamenti, ma anche dei pagamenti, dell’equity, per sfruttare appieno le potenzialità della tecnologia, in un’ottica di sistema.

Storicamente le imprese finanziarie sono sempre stati più portati alla leva finanziaria che all’equity? Le cose stanno cambiando? Aiuta in questo senso la digitalizzazione?

La risposta è sì. Credo che oramai da una decina d’anni ci siano tanti “cantieri” che stanno mettendo a punto le infrastrutture per far arrivare alle piccole e medie imprese capitale di rischio, non necessariamente sotto forma di quote di maggioranza, anzi.

Negli ultimi anni sono state create varie tessere di mosaico che si stanno combinando tra loro: la normativa sui fondi specializzati, l’introduzione dei PIR (ovvero i Piani Individuali di Risparmio), il mercato alternativo del capitale, gli incentivi per gli investimenti in startup. Sono elementi comuni di un piano d’azione che è europeo, e che mira a mettere i capitali d’Europa, continente ricco di risparmio, a disposizione delle imprese anche piccole e medie, meno visibili sul mercato dei capitali.

Il problema è che l’Italia è ancora molto, troppo lenta. 

Quali normative sarebbero utili per velocizzare il processo?

È una questione di atteggiamento. Alla fine hanno tutti paura di essere primi a partire. Come nel ciclismo nelle gare di inseguimento in cui fanno partire prima gli altri. In Italia siamo forse poco coraggiosi.

Quindi le leggi e le agevolazioni ci sono, ma c’è timore a usarle?

Sì, per esempio la legge che consente ai fondi pensione di investire nel private equity c’è da anni, ma pochissimi hanno fatto le modifiche allo statuto per recepirla. 

Quindi si avverte l’esigenza che le autorità abbiano anche un ruolo di spinta verso l’innovazione del mercato, non solo quello pur doveroso di sorveglianza e vigilanza, ma anche di stimolo. Siamo in Italia troppo passivi, in altri Paesi i governi danno più supporto, penso ad esempio all’Irlanda, alla Francia, anche alla Spagna. 

Questo secondo lei non dipende anche da una bassa alfabetizzazione finanziaria del risparmiatore medio? O invece è un effetto della pavidità di cui diceva?

È una questione storica, ma se devo essere onesto devo dire che credo sia un falso problema. Il lavoratore americano, ad esempio un camionista, non è più sofisticato del nostro piccolo investitore, la differenza è che lì vi sono poche regole e il camionista sa che deve aprirsi un fondo fatto in un certo modo in cui deve fare versamenti per avere la pensione. 

Quindi è più una questione di avere indicazioni precise e strumenti da usare.

Quindi il fondo del camionista investe in equity mentre quelli italiani sono reticenti a farlo, proprio a livello di scelta dei dirigenti

Peggio ancora, i fondi pensione e le casse di previdenza italiani investono prevalentemente in titoli quotati esteri. Il 95% degli investimenti in equity è all’estero, e siamo sull’80% se parliamo di obbligazioni. Questa è una follia, il risparmio nazionale viene portato all’estero invece che essere impiegato in Italia. Capisco la diversificazione, ma così è eccessivo.

Allora se l’esigenza è di investire nelle piccole e medie imprese italiane, occorre un po’ di dirigismo.

In che senso?

È chiaro che si deve fare salva la libertà di impiego dei risparmi privati, ma quando parliamo di fondi pensione, di riserve assicurative, farsi dare indicazioni di allocation dal pubblico sotto forma di incentivi sarebbe anche giusto. Questo sta succedendo in qualche forma, per esempio, con l’introduzione dei PIR, che spingono i privati verso investimenti di lungo periodo che poi convengono anche a loro visto che portano a rendimenti maggiori, soprattutto oggi che quelli a breve termine non rendono, con esempi sul mercato di titoli triennali a tasso negativo.

Quindi a livello di governance pubblica nuove regole e incentivi nei confronti degli intermediari per indurli a investire su equity italiano

Sì, ovviamente si devono fare le cose rispettando alcuni dogmi, come il merito. Il risparmio nazionale è una risorsa preziosissima, una volta che lo perdiamo non si riforma, per cui va usato con oculatezza, e quindi vi deve essere vigilanza del processo di selezione degli investimenti e dei finanziamenti. E comunque va premiata la forte diversificazione degli investimenti, perché vogliamo raggiungere il maggior numero di imprese possibile e non fermarci alla prima operazione più facile. Allo stesso tempo va mantenuta la competizione: vogliamo che le imprese guadagnino in libertà, non che vengano messe nell’angolo da clausole molto restrittive. 

La competizione porta anche a una contrazione dei prezzi vantaggiosa per tutti.

Immagino un sistema più efficiente e trasparente, e tutto ciò che serve a questo scopo, agenzie di rating, trasparenza sui dati, fatturazione elettronica, open banking, rende il nostro Paese un territorio in cui è interessante fare investimenti.

Uno dei principi di queste normative è che si dovrebbe fare così bene da attrarre denaro anche da altri Paesi, all’opposto di quanto avviene ora. 

Attenzione, il sistema funziona bene però anche perchè a qualcuno si dice di no, e si deve dire no anche di fronte a soggetti che magari si lamentano sui media del mancato ottenimento dei capitali. Un sistema efficiente non è quello in cui si danno i soldi a tutti.

Il Fintech sta risentendo della crisi legata alla pandemia? O è in un certo senso avvantaggiato?

Abbiamo avuto un terzo trimestre di grande recupero, con le aziende che hanno ripreso a lavorare e hanno avuto bisogno di finanziare i propri progetti. Purtroppo le cose non sono andate altrettanto bene nel quarto trimestre, ma gli investimenti devono andare avanti per continuare a progettare la ripresa. 

Garanzia Italia ha consentito alla banche di continuare a dare credito per fare investimenti, ma è cambiato l’ultimo miglio della catena distributiva, con i clienti che stanno maggiormente a casa, filiali chiuse, i rapporti fisici ridotti quasi a zero, si fanno videoconferenze, si firmano i contratti da remoto, in digitale, lo facciamo anche noi. Quindi anche la banca deve adattare il proprio modello di servizio. Come dicevo prima, deve fare squadra con il fintech.

Il Fintech del resto è cresciuto di oltre 4 volte rispetto all’anno scorso forse anche per questo. È una questione di comodità e di attenzione alle aziende. Penso che comunque tutte le banche si siano organizzate a lavorare in remoto, ma serve un passo in più. 

Questa crisi ha aiutato il Fintech italiano a fare un catching up verso l’estero?

Beh direi che il lock-down ha imposto lo sviluppo accelerato di tutti i servizi a distanza ed il fintech ha ben messo a disposizione una velocità ed una qualità del servizio che hanno portato ad una fortissima crescita rispetto al 2019.

Grazie mille per il suo tempo dottor Crovetto

Grazie a voi


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