Il mondo del lavoro e delle imprese in Italia ha molti protagonisti. Oltre agli imprenditori e ai manager che guidano le aziende e agli economisti che cercando di capire i trend in atto ha un ruolo centrale anche il sindacato. Per questo abbiamo voluto incontrare Roberto Benaglia. Arrivato alla guida della FIM (Federazione Italiana Metalmeccanici) CISL proprio nel 2020, nel pieno dell’emergenza legata alla pandemia, succedendo a Marco Bentivogli, si occupa da una vita di mercato del lavoro e di contrattazione, prima in Lombardia, la sua regione, poi in tutta Italia.
Ci sono già delle analisi che ci dicono che naturalmente tutto il mondo del turismo, della ristorazione, dei servizi alla persona, dei trasporti è stato più colpito. Tra l’altro un mondo che negli ultimi 15-20 anni aveva anche mostrato molto dinamismo, con attrazione di occupazione, magari anche se a basso valore aggiunto.
Io sono segretario dei metalmeccanici. L’industria è stata certamente colpita ma c’è stata una ripartenza delle filiere produttive che sicuramente è più consistente degli altri settori citati. Pensiamo anche a quelli in cui i rapporti di lavoro sono molto marginali come lo spettacolo, per cui non abbiamo pensato nel tempo a creare ammortizzatori sociali.
Per questo siamo stati costretti alla logica dei ristori e dei bonus, per andare incontro a un mondo del lavoro fatto di partite IVA, contratti a termine, che sono quelli che ora stanno pagando il conto della crisi.
Siamo contenti del blocco dei licenziamenti, ma sappiamo che incide su un numero di imprese importante ma non esaustivo.
E poi tra i più colpiti ci sono i giovani e le donne. Le donne perché i settori più coinvolto hanno un alto tasso d’occupazione femminile e i giovani perché sono i più interessati dai contratti a termine, e quando l’economia frena la prima cosa che un’azienda fa non è licenziare o ricorrere alla cassa integrazione ma non confermare i contratti a termine e a somministrazione.
Le popolazioni lavorative già deboli si sono indebolite di più
Diciamo che le app e simili hanno il pregio di offrire posti di lavoro molto frazionabili, non i classici a 40 ore a settimana da lunedì a venerdì dalle 8 alle 5. È un po’ un lavoro “alla spina”, mi viene quest’immagine, che avvicina lavoratori a basso reddito, informali, saltuari, giovani universitari, che possono lavorare solo al bisogno, quando ne hanno necessità.
È chiaro che è un mondo molto più liquido e molto più instabile nel quale si annida un altissimo tasso di precarietà. Si tratta spesso di una estrema flessibilità non voluta solo dalle imprese ma anche dal lavoratore stesso, e soprattutto è accompagnata da bassi salari e tutele mancanti.
Qualcuno poi ce la fa a crescere, ma molti rimangono intrappolati in rapporti di lavoro deboli senza protezioni sociali e ammortizzatori, con stipendi, ripeto, bassi.
Che sono uno dei problemi del Paese, vi è il fenomeno dei lavoratori poveri, spesso annidato anche dietro il part time involontario, dietro il fatto che molti non riescono a lavorare neanche per il periodo sufficiente ad avere il pieno sussidio di disoccupazione.
Certo, il tema è che essendoci la possibilità di reperire facilmente, in mezzo a una massa molto grande di forza lavoro, lavoratori per mansioni molto semplici, tali aziende possono permettersi di avere un tasso di rotazione del personale molto forte, non si preoccupano di fidelizzare, di far crescere le persone e di trattenerle.
Nel caso dei rider è evidente. Nonostante da tre anni la politica abbia posto questo tema e il sindacato abbia chiesto di regolamentare meglio, vi sono state alterne vicende, tra cui il recente contratto “pirata” firmato dall’UGL e le aziende non si sono messe su un filone sereno di relazioni sindacali costruttive per investire sul lavoro. Non basta il lavoro flessibile, deve essere qualificato e ben tutelato
C’è anche questo temo nel senso che in Italia si soffre tantissimo del disallineamento tra competenze delle persone e lavori proposti, per cui anche quando si lavora si svolge una mansione per cui non si è studiato e per cui bisogna riconvertirsi.
Questo è un grandissimo fattore di bassa produttività, che infatti è una malattia dell’economia italiana, e anche di precarietà perché non senza essere specializzati e competenti in quel che si fa non si può crescere professionalmente.
Bisogna investire in tutele, non solo in senso economico, ma anche di rafforzamento delle competenze del lavoratore.
Nessun ministro del Lavoro riuscirà mai a garantire a tutti i lavoratori a termine o in somministrazione un posto di lavoro fisso, ma quello che può essere fatto è fare in modo che chi non può essere stabilizzato acquisisca competenze e migliori la sua occupabilità.
Questo è quello che manca. Abbiamo troppi lavoratori che restano intrappolati in lavoro a basso reddito e a bassa tutela perché non riescono a formarsi.
Non mi permetto di dare giudizi drastici e definitivi, il fenomeno delle startup è dovuto anche al fatto che oggi la tecnologia è disponibile a costo minore ed è possibile fare innovazione con mezzi inferiori rispetto al passato.
Sono una componente essenziale dell’economia moderna. Il vero tema è evitare che queste aziende siano abbandonate a se stesse, sia per quanto riguarda la loro crescita, c’è un tasso di mortalità molto forte, sia per quanto riguarda i lavoratori. Questi spesso vengono inseriti in queste attività senza chiarezza sulle loro condizioni, non tanto contrattuali, ma sui diritti posseduti, anche sulle possibilità crescita, sul welfare. Per esempio la protezione sociale in caso di maternità o di altra necessità.
Manca l’idea di associare il lavoro nuovo, il lavoro in una startup con regole contrattuali adeguate
In Italia c’è una cultura molto diffusa socialmente del fai da te, del mettersi in proprio. Questo indica dinamismo ma spesso non dà prospettive forti di crescita industriale.
C’è la percezione che si sia competitivi se si hanno vantaggi fiscali, ma in realtà si diventa competitivi se si hanno strumenti per mettere insieme competenze e innovazione.
Fosse per me, creerei un grande bonus per la formazione, e poi c’è il tema dell’attestazione delle competenze, dobbiamo capire di quali c’è realmente bisogno, e quindi va alimentato un rapporto proficuo tra scuole e università e aziende.
E poi le startup devono avere luoghi nei quali poter essere sostenute da “allenatori”, mi viene da usare questo termine, che le aiutino a capire le direzioni di crescita che possono prendere
Grazie a voi