La scossa c’è stata, era inevitabile. Il secondo trimestre del 2022 ha risentito delle conseguenze dell’inflazione in crescita e dell’incertezza economica provocata dall’attacco russo all’Ucraina da parte della Russia.
Il valore complessivo dei deal di Venture Capital in Europa secondo Pitchbook è stato di 25,7 miliardi di euro, il 10,6% in meno che nei primi tre mesi dell’anno
Si tratta di un arretramento ampiamente previsto, che mette in dubbio il superamento del record del 2021, quando il settore europeo del VC è arrivato a quota 105,6 miliardi. Nella prima parte dell’anno la presenza di una quantità ancora considerevole di “dry power”, ovvero di riserve di denaro nei fondi, e la coda lunga di investimenti pensati nel 2021 hanno tenuto a galla il settore. Nei trimestri successivi non è accaduto e non potrà accadere lo stesso.
Consideriamo che, però, se il paragone, invece che con lo scorso anno, è con il 2020 siamo già di fronte già a un superamento: allora il valore del VC complessivo era stato di 48,3 miliardi di euro, inferiore a quello dei primi sei mesi del 2022, quindi. E nel 2019 era di 38,9 miliardi.
I prossimi mesi, caratterizzati da grande incertezza, ci diranno quale sia la magnitudo di questa inevitabile frenata.
Alcuni elementi però si rivelano già oggi interessanti.
La riduzione degli investimenti nel Vecchio Continente è stata minore di quella che ha colpito le altre principali regioni del globo, in primis gli Usa e l’Asia.
Il confronto è realizzato da CB Insights, che ha numeri leggermente diversi ma coerenti con quelli di Pitchbook.
Evidenziano un calo del valore dei deal del 25% sia negli Stati Uniti, dove è passato da 70,1 a 52,9 miliardi di dollari, che nel continente asiatico, in cui è sceso da 35,8 a 27 miliardi.
In base ai calcoli di CB Insights in Europa la riduzione è stata invece del 13%.
Naturalmente potremmo essere solo all’inizio della fase di riassestamento del mercato del Venture Capital, e, come avviene spesso anche in altri ambiti dell’economia, il Vecchio Continente è semplicemente in ritardo rispetto alle aree più dinamiche del mondo.
Tuttavia secondo diversi analisti vi sono delle ragioni concrete per cui in Europa le cose finora sono andate meglio, o meno peggio, e, soprattutto, per cui potrebbero non peggiorare come sta succedendo altrove.
Le startup europee tendono ad avere valutazioni inferiori di quelle americane. Anche se negli ultimi anni si è assistito a un incremento non si è verificata quella che viene definita Oltreoceano come una vera e propria bolla, che ha provocato nel 2021 1.875 exit negli Usa, contro le 142 in Europa ed Israele. E nonostante si sia incrementata, qui, la quota di deal realizzata a uno stadio più avanzato e con il coinvolgimento di somme più grandi, il gap con gli Stati Uniti si è in realtà allargato.
In Europa persino le aziende late-stage non vanno oltre una valutazione mediana di 28,1 milioni di dollari (dati Pitchbook del primo trimestre 2022), mente Oltreoceano si arriva a 100 milioni.
Le minori dimensioni del mercato del Venture Capital e un bacino di liquidità meno ampio, sono state un freno allo sviluppo di unicorni e di grandi investimenti nel Vecchio Continente, ma sembrano causare per ora anche un arretramento inferiore in questo periodo di crisi.
In fondo è quello che è accaduto nel 2008/09 con il mercato immobiliare: laddove la bolla del mattone era stata più piccola si è assistito a una recessione almeno inizialmente più lieve.
Questa minore ampiezza dell’ecosistema nonché dei fondi di VC è di per sé uno scudo contro la volatilità perché il bacino di capitali al di fuori di questo mondo è ancora ampio, e, anzi, una parte ha intenzione di entrare. Il suo impatto, considerando la prevalenza di investimenti piccoli, early-stage, potrebbe ancora essere notevole.
Come avviene nel mercato dei beni, anche in quello dei capitali gli investimenti tendono a spostarsi laddove i costi sono più bassi. È una delle regole della globalizzazione. In questo caso si tratta proprio dell’Europa.
Così anche i fondi americani si rendono conto che non solo è conveniente dal punto di vista monetario, ma anche strategico, mettere un piede in mercati parzialmente “vergini”, anche perché le startup di successo, soprattutto quelle dell’ambito digitale, tendono a operare a livello globale. Chi investe in innovazione sa che questa può essere ovunque.
Vi è poi un altro elemento importante da considerare, che ha un impatto sia sul mercato europeo che sugli altri: i principali fondi di Venture Capital, sia del Vecchio Continente che di Oltreoceano, hanno accumulato ampie riserve, certamente per sostenere le aziende più importanti già in portafoglio, ma anche per cogliere le occasioni, ovvero startup promettenti con una valutazione bassa (spesso, appunto, europee).
Nel 2000, ricorda l’Economist, l’ecosistema era più fragile. Oggi anche i fondi europei, per quanto più piccoli, sono più robusti, e meno dipendenti dai capitali americani, per quanto questi ultimi siano i benvenuti.
Il dato più importante, però, afferma sempre il magazine economico, è che ormai i prodotti e i servizi delle startup emerse grazie al Venture Capital sono presenti ovunque, sono indispensabili nella vita quotidiana di molte persone e aziende, fanno parte del mondo del business, non sono una nicchia a parte.
Il VC non si è limitato, negli ultimi anni, a pochi segmenti del mondo digital, ma ha acquistato sempre più importanza anche nel bio-tech e nell’industria manifatturiera, per esempio. Il Venture Capital è economia reale, insomma.
E nell’economia reale ci sarà sempre fame di innovazione.