Deluchi (Polihub): "Sosteniamo le startup Deep Tech nella fase early stage, quelle che hanno più difficoltà a trovare investitori"

Gianni Balduzzi 04/03/2022

Amministratore Delegato di PoliHub dall’ottobre del 2020, Enrico Deluchi ha dedicato tutta la propria carriera all’innovazione, fin dagli inizi in Italtel. Successivamente in AT&T, in Cisco, dove è stato 15 anni in ruoli di vertice, e poi in Canon Italia, di cui è stato Ceo. 

Abbiamo voluto incontrarlo per capire come uno dei più importanti acceleratori e incubatori italiani agisce, quali sono le opportunità che offre e le sue esigenze, e come vede questa fase cruciale per l’innovazione tecnologica targata Italia.

Buongiorno Ingegner Deluchi, grazie per avere accettato il nostro invito. Perché il vostro lavoro è importante per le startup o per i team che ancora una startup non l’hanno fondata? E quali in particolare arrivano da voi?

Da noi arrivano startup e progetti di ogni tipo, tuttavia abbiamo scelto di focalizzarci e diventare i più bravi a trovare e aiutare quelle che abbiano alla propria base un forte contenuto tecnologico, che possiedano dei brevetti o che comunque rientrino nella categoria che chiamiamo “Deep Tech”

È una scelta abbastanza naturale, considerando che una parte importante del flusso ha origine accademica, e si tratta di progetti che hanno origine nel Politecnico di Milano.

Questo non significa che non ci interessino altre realtà, ma, dato che esistono già molti altri incubatori che si rivolgono a startup che generano innovazioni non tanto utilizzando brevetti, quanto facendo un uso intelligente di tecnologie esistenti e innovando processi di business e di consumo, come le app mobile o l’e-commerce, e per le quali sono spesso sufficienti qualche decina di migliaia di euro per fare un MVP e iniziare a testare il proprio prodotto sul mercato, noi abbiamo deciso di concentrare la nostra azione a favore di chi invece opera nel Deep Tech e che non ha molti altri luoghi in cui andare.

I servizi di PoliHub, quindi, sono molto sartoriali, e si adattano alla tipologia di startup con cui abbiamo a che fare. Anche perché nell’ambito della tecnologia ci capitano progetti nell’elettronica, nella fotonica, nella robotica, nelle space technologies, nei materiali evoluti. È difficile farli entrare in un programma di accelerazione “standard”, uguale per tutti, dato che si rivolgono a mercati e industrie molto differenti, spesso creano hardware e tecnologie che hanno bisogno di tempi di sviluppo molto diversi, ed è per questo che i nostri programmi di accelerazione sono costruiti tenendo conto di queste caratteristiche. Inoltre sono spesso indispensabili infrastrutture, laboratori, che altri acceleratori non hanno. 

Quali sono le differenze tra i progetti che usano i vostri servizi di incubazione e programmi di accelerazione early stage, e quelli che, ottenuti i primi investimenti e divenuti startup, invece aderiscono a programmi di accelerazione adatti ad imprese più mature? Fino a che stadio le supportate?

Mi posso rifare a una definizione un po’ tecnica, ma che aiuta. Parliamo di Technology Readiness Level, TRL. Cominciamo a lavorare con dei team con progetti che si trovano ad un TRL 3 o 4, ovvero che sono in grado di realizzare un primo prototipo a livello di laboratorio. 

Con questi il lavoro che facciamo è soprattutto nell’ambito del problem/market fit, ossia aiutarli a capire quali possano essere i mercati in cui la loro tecnologia potrebbe risolvere grandi problemi. 

Nel frattempo, lo sviluppo tecnologico prosegue. Se la validazione tecnologica e di mercato è promettente, ricevono i primi finanziamenti dal venture capital. A questo punto hanno raggunto un livello di TRL 5 o 6, e sono pronti ad affrontare un proof of concept, ossia a dialogare con le imprese, che potrebbero diventare sia clienti finali, sia partner industriali,  per cominciare ad inserire la propria soluzione nel mercato.  In questa fase noi li supportiamo con dei programmi di accelerazione tailor made, che si avvicinano molto alle iniziative di Venture Bulding e che li aiutano sia a capire meglio come la loro tecnologia risolva i problemi individuati, e stiamo parlando di problem/solution fit, sia ad affrontare le tematiche più concrete del fare impresa tecnologica, quali ad esempio il processo di industrializzazione, quindi sul product management e gli aspetti organizzativi e finanziari.

Li accompagniamo così fino a che raggiungono un TRL di 6 o 7. A quel punto iniziano ad avere clienti paganti, hanno ottenuto qualche milione di investimento e sono abbastanza solidi per non avere più bisogno di noi.  Rimaniamo tuttavia in contatto, sia perché a volte abbiamo noi stessi delle piccole quote di partecipazione nelle startup, sia perché chiediamo loro di condividere con altri imprenditori che stanno affrontando per la prima volta un percorso simile, le loro esperienze.

Tutto questo percorso dura mediamente 2-3 anni. 

Rispetto agli inizi, al momento della fondazione di PoliHub, cosa è cambiato a livello di settori, di imprenditori, di tipologia di startup che sono approdate da voi

Sono cambiati loro come siamo cambiati noi.

Il maggiore mutamento è avvenuto nel 2019, con la nascita del primo fondo di venture capital early stage, ovvero Poli360, grazie ad un’iniziativa del Politecnico di Milano in collaborazione con il fondo di VC 360 Capital. Questo, cioè la disponibilità di capitali per investire in progetti che vengono dalla ricerca a uno stadio iniziale, è stato un fattore scatenante.

Prima di allora per un ricercatore che aveva un progetto o un brevetto l’unico modo per finanziarlo era rivolgersi ai bandi o ricorrere al debito. Pochissimi soggetti, soprattutto in Italia, erano disposti a investire in questa fase precoce, pre-seed, soprattutto quando le tecnologie coinvolte non erano solo software o servizi. 

La ricerca universitaria, che spesso prevede anche lo sviluppo di hardware, frequentemente accoppiato a software e algoritmi, aveva grande difficoltà a trovare le risorse necessarie per far progredire lo sviluppo tecnologico. Grazie a Poli360 si è innescato un cambiamento che ha consentito di fare nascere imprese che altrimenti avrebbero fatto fatica a vedere la luce, e soprattutto di farle nascere in Italia, evitando che scappassero subito all’estero. 

Questo cambiamento ha condizionato il tipo di aziende che sono arrivate da voi?

Direi di si. L’assenza di un Venture Capital focalizzato nelle fasi early stage faceva sì che molte delle startup che accoglievamo dovevano finanziarsi con il fatturato e quindi con il capitale circolante. Le loro dinamiche di crescita e impostazione del business erano condizionate da questa carenza di capitale. Dopo il 2019 sono giunte realtà che potendo contare su investimenti molto più significativi seguono traiettorie di crescita molto più veloci e decise. Questo ha fatto evolvere anche la tipologia di servizi che noi dobbiamo offrire, affiancando ai classici servizi da incubatore spesso centrati sulla disponibilità di spazi e servizi di consulenza di base, servizi che richiedono una sempre più netta specializzazione in settori di alto contenuto tecnologico. E tutto questo ci sta spingendo ad allargare sempre più la rete di mentor e di esperti che possono dare un aiuto alle startup e, assieme a loro, il numero di aziende che partecipano stabilmente alla vita della nostra community, sia per cercare con continuità nuove innovazioni, sia per avviare partnership industriali e rendersi disponibili alla validazione delle tecnologie.

Oggi aiutiamo imprese nel settore delle deep tech, come ho detto, con un particolare focus per le climate tech, ovvero quelle che operano nell’ambito della transizione energetica e climatica, la sostenibilità, l’economia circolare, i nuovi materiali.

Con Cassa Depositi e Prestiti, infatti, il Politecnico di Milano ha contribuito alla nascita del Fondo di Trasferimento tecnologico Tech4planet, di cui PoliHub è il business accelerator nazionale. Abbiamo quindi anche questo ruolo: siamo per Cdp, in sostanza, l’acceleratore per le startup tecnologiche nelle quali investirà per realizzare la transizione energetica

Secondo lei cosa dovrebbe fare il settore pubblico per rendere più efficace il vostro lavoro e la sinergia tra l’università e il mercato

E’ in corso attualmente un lavoro all’interno dell’Italian Tech Alliance rivolto ad un aspetto normativo che meriterebbe un cambiamento per migliorare la capacità di trasferimento tecnologico dall’università al mercato e riguarda la proprietà intellettuale. L’Italia con la Svezia è l’unico Paese in cui continua a esistere il professor privilege, ovvero il diritto in capo ai docenti di decidere il destino di una ricerca, ossia la pubblicazione piuttosto che la brevettazione, oppure come sfruttare economicamente un brevetto, invece che all’ateneo, come è in altre nazioni. 

In pratica questo significa che il firmatario di una ricerca o di un brevetto, nonostante abbia sviluppato un’innovazione grazie alle strutture e alle competenze dell’università che lo ospita, può decidere di tenerla nel cassetto, o di renderla pubblica senza brevettarla senza pensare ad una valorizzazione economica di quella proprietà intellettuale. E questo è un vero peccato, un’occasione mancata di generare innovazione concreta e, da qui, nuove imprese. 

Devo dire che al Politecnico di Milano, che probabilmente è l’ateneo più avanzato in questo campo in Italia, tale tema è stato in parte risolto nei regolamenti interni, ma rimane importante altrove e ha frenato o ostacolato il trasferimento tecnologico dall’università alle imprese in Italia

Se riusciremo a far cambiare queste norme, e le proposte in tal senso sono sui tavoli delle commissioni parlamentari preposte, sarà più facile che l’ecosistema universitario possa sfruttare la ricerca e le invenzioni che nascono negli atenei.

Sarebbero quindi anche a disposizione degli studenti che volessero poi avviare un progetto d’impresa sulla base di queste

Certo, e anche dei ricercatori, e di chiunque voglia avviare un processo di trasferimento tecnologico ben strutturato e finalizzato.

Qualunque brevetto porta sempre più firme, non ha solo quella di un docente, che lavora sempre in un team con altre persone, dottorandi, assegnisti, etc. Tuttavia per la legge oggi chi ha l’ultima parola sul risultato del lavoro è solo uno. Ci sono spazi quindi per avere opportunità maggiori se interveniamo intelligentemente in quest’area. 

È un tema importante per il Paese. Se ne dovessi citare un altro, un po’ egoistico, vi sarebbe quello delle risorse economiche necessarie per fare il nostro mestiere, ovvero quello di accelerare il trasferimento tecnologico. 

I progetti di ricerca sono infatti come embrioni, semi, di quella che potrà essere una tecnologia, che a sua volta potrà diventare un’azienda e produrre trasformazione, innovazione e ricchezza. Quando questa ricerca, portata avanti nell’università, inizia un processo di trasferimento tecnologico e ad affacciarsi al mercato, è estremamente fragile, perché gli inventori sono geniali sul versante scientifico e tecnico ma sono spesso impreparati su tante altre dimensioni, economiche, finanziarie, commerciali.

Avere tanti progetti di ricerca e sperare che si sviluppino da soli è come seminare tanti semi nel terreno del mercato e sperare che, senza che nessuno li innaffi o si prenda cura dei germogli che stanno crescendo, di veder nascere dei frutti, ossia delle imprese. 

Questo in realtà è quello che accade oggi nel mercato del corporate venture capital, e da un certo punto di vista lo capisco: tutti cercano frutta che sia già quasi matura, ossia startup con un prodotto già quasi completato e con fatturato, per ridurre il rischio e abbreviare i tempi anziché investire nella semina e nel finanziamento degli “agricoltori” che per 2 o tre anni lavorano affinché crescano piante sane e robuste. 

Questi semi, questi progetti di ricerca, in un certo senso rappresentano un po’ un fallimento del mercato, il privato non ci investe e per questo è necessario il settore pubblico

E’ così. La quota di investimenti in ricerca e startup da parte delle aziende italiane continua ad essere il grande assente al tavolo dell’innovazione. Non solo nella fase di nascita di imprese ma anche per quanto riguarda le exit. C’è tanto spazio per fare meglio. Ma le cose si stanno per fortuna muovendo. Dal punto di vista puramente economico l’università con il Pnrr dovrebbe ricevere più risorse, ma quando vi sono progetti scientifici, brevetti, servono anche competenze che solo soggetti come noi possono portare. Nessun privato aiuterebbe un ricercatore come noi facciamo nei primi due anni nella fase di early stage.

È il momento in cui c’è più incertezza, direi

Sì, una doppia incertezza, tecnologica e di mercato. Però è proprio in questa fase che nascono quelle soluzioni che sono veramente innovazioni radicali e non solo incrementali. 

Noi operiamo nel settore in cui vi è maggiore necessità di capitali e che richiede più tempo per far nascere una startup. Con il nostro lavoro abbassiamo sia il rischio tecnologico sia quello di mercato. Credo che noi dobbiamo fare di più per spiegare meglio in cosa consiste il nostro operato per farlo apprezzare e, quindi, anche riconoscere dal punto di vista economico.

Vorrei spingermi fino a dire che abbiamo un ruolo sociale. PoliHub obbedisce al terzo mandato dell’Ateneo, ossia quello di produrre impatto verso la società. Dal punto di vista giuridico, siamo una realtà senza fini di lucro e il nostro statuto è quello di una società consortile benefit. Abbiamo inoltre avviato il percorso per diventare B Corp entro i prossimi dodici mesi.

Il nostro conto economico si regge primariamente sui ricavi generati dalle nostre attività, svolte a favore di startup, aziende, enti ed istituzioni. In sostanza ci autofinanziamo. Una parte importante del nostro lavoro si rivolge, oltre che alle startup, alle aziende. Il 90% degli sbocchi per le startup nel nostro ecosistema è nel mercato business, quindi, hanno bisogno di rivolgersi alle imprese subito, per testare con esse le proprie soluzioni, per trovare partnership tecnologiche o commerciali. Il dialogo tra startup e corporate è un elemento fondamentale delle nostre attività. Ed è da qui che poi nascono relazioni con grandi aziende che ci ingaggiano per aiutarle nelle strategie di open innovation e di venture building. Ed è anche grazie a questa tipologia di attività di supporto alle grandi aziende che poi riusciamo a ottenere le risorse economiche per finanziare il nostro core business che, ricordo ancora una volta, è quello di trovare, far nascere e assistere nei primi anni della loro crescita le più promettenti tecnologie e imprese per il futuro del nostro paese.  

La ringrazio molto ingegner Deluchi

Grazie a voi.


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