Due delle più importanti riforme degli ultimi 10 anni, quella delle pensioni e del lavoro, portano il suo nome. Già economista, docente di Economia Politica a Torino, è stato dopo essere diventata ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali nel governo Monti tra fine 2011 e inizio 2013 che Elsa Fornero è divenuta nota al grande pubblico, rimanendo anche dopo l’esperienza governativa al centro del dibattito economico italiano.
Per questo abbiamo voluto incontrarla per farle alcune domande sul delicato momento attuale.
Io ho fiducia nel ministro Gualtieri, credo sia competente, conosce bene i meccanismi europei, anche i meccanismi reputazionali, non è un ministro disposto a “confezionare” la realtà per farla apparire più rosea per motivi politici. Chiaramente i modelli e gli analisti del Ministero dell’Economia sono buoni, e credo si confronti con Bankitalia e altri istituti di previsioni, non ho elementi per dire che si tratta di una previsione troppo ottimistica, quindi la guardo con rispetto dovuto.
Detto questo è vero che le previsioni dipendono dagli input che si danno e dagli scenari che si prefigurano, quindi presumo che dipendano anche dall’ipotesi di esclusione di un nuovo lockdown, e di un’attività produttiva che non venga ancora interrotta, e chiaramente su questo c’è ancora incertezza. Non abbiamo elementi solidi per proiettare la diffusione del virus nel futuro.
Si tratta comunque di una caduta del PIL molto grave, e anche il rimbalzo, che è quello promesso nel terzo trimestre, e che servirebbe appunto a limitare il calo del 2020, sarebbe un rimbalzo su una base di PIL molto ridotto.
Certo, diciamo che ha colpito di più finora i lavoratori precari, quelli il cui rapporto di lavoro può essere interrotto, perchè per gli altri il governo ha introdotto una cassa d’integrazione specifica, per il Covid, una misura di liquidità a favore dei lavoratori e delle imprese. Inoltre per questi lavoratori c’è il divieto di licenziamento.
All’inizio è stato importante, si doveva dare liquidità alle famiglie, così come alle imprese attraverso il credito, e oltre alla liquidità si voleva dare tranquillità ai lavoratori, perché al termine del lockdown potessero tornare, in presenza o a remoto, regolarmente al lavoro. Ecco, però avere fatto la proroga è già più problematico, perché in periodo di emergenza si fanno tante cose che per esempio un’economia di mercato difficilmente tollera, e un primo rinvio ancora si può accettare, ma non ce ne può essere un altro, d’altronde lo stesso Gualtieri ha detto che non ci sarà più una cassa integrazione generalizzata, e immagino che analogamente non ci sarà più una proroga del divieto di licenziamento.
Perchè le aziende possono dire, “voi mi impedite di licenziare e quindi di rimodulare la manodopera alle mutate condizioni di mercato, ma così impedite l’assunzione di nuovo personale che potrebbe essere utile” Un po’ come accadeva con l’articolo 18, che prefigurando una possibile riassunzione dei licenziati disincentivava le assunzioni. Le cose non sono cambiate, se un imprenditore non può ristrutturare la manodopera poi non può assumere.
Abbiamo un governo che sembra molto propenso a entrare nelle crisi aziendali come titolare dell’azienda stessa. Lo Stato imprenditore può andare bene in alcuni settori, ma non può esserci una strategia di sistematico intervento, magari tramite la Cassa Depositi e Prestiti e i fondi del Recovery Fund, o non saremmo più un’economia di mercato, ma pianificata. Sarebbe uno scenario davvero preoccupante e grave, perchè nelle crisi quello che occorre fare è invece una riallocazione delle risorse da settori che vivacchiano solamente a quelli più promettenti e produttivi e lo Stato non può pensare di intervenire nei primi continuando a sostenere delle perdite perchè questo vorrebbe dire sprecare soldi pubblici, il che è diverso da dire che si possono sostenere i lavoratori delle aziende in crisi.
L’ho detto e scritto, al di là di quello che sarà necessario per l’ambito sanitario, che guarda caso corrisponde all’ammontare del MES, per me la priorità del Paese rimane l’istruzione, la formazione, la ricerca, l’innovazione. Questo può aiutare la produttività ad aumentare, anche se magari non nell’immediato, che è quello che è mancato negli ultimi 25 anni, e deve essere chiaro a tutti.
A me è dispiaciuto constatare che il governo non avesse la consapevolezza che fosse importante fare ripartire la scuola anche prima del 14 settembre. Sarebbe dovuto essere una priorità trovare per esempio luoghi alternativi dove votare per non fare chiudere le scuole in occasione delle elezioni.
Così come l’ambiente ora è un tema trascinante, così anche l’istruzione dovrebbe esserlo, che le persone si sentano trascinate dall’esigenza di dare un'istruzione a figli e nipoti, di fare in modo che il tasso di scolarizzazione sia più alto, che ci siano meno abbandoni, che riguardano di solito le famiglie più in difficoltà, che nelle periferie almeno le scuole siano migliori, mettendo maggiori risorse umane, finanziarie, tecnologiche necessarie a disposizione, che si alzi la percentuale di laureati, mentre oggi molti pensano che una laurea non serve a niente. Questo è un messaggio devastante, Conte dovrebbe dire ogni giorno qualcosa su questo, dovrebbe essere un chiodo fisso per il governo. Ma non solo nel governo, anche in altri ambiti non pare esserci molto attaccamento all’istruzione.
D’altra parte non dimentichiamo c’è anche l’esigenza di un’istruzione professionale che serve a artigiani e professionisti e che spesso manca. Io mi ero battuta per questa, ma non è che potessimo fare tutto in un anno e mezzo. Perchè ora avremo le risorse con il Recovery Fund, i buoni imprenditori li abbiamo, ma è l’istruzione la benzina della crescita.
Nelle startup credo di no. In genere in quest il capitale umano c’è, sono il frutto della capacità di innovazione e di creatività dei giovani, della loro preparazione.
Per il resto il problema è che se una volta per genitori poco istruiti era importante avere il figlio dottore, ora lo è meno, c’è meno rispetto per l’istruzione, anche per i messaggi che sono arrivati dalla politica, perchè “tanto il lavoro non c’è”, e sono messaggi pericolosi, responsabili del nostro declino.
Nella classe imprenditoriale poi ci sono ottime e pessime persone, ci sono quelli che cercano la loro di nicchia di aiuto pubblico da cui non smuoversi per paura della competizione, e tanti piccoli imprenditori che comprendono e hanno rispetto per l’istruzione e la formazione. E questi sono il valore del nostro capitalismo basato sulle piccole imprese.
Diciamo che in altri Paesi, ad esempio negli USA, queste risultano essere cresciute perchè quelle che non lo fanno non esistono più, sono fallite, c’è molta selezione. Il che non è sbagliato, il fallimento altrove non ha lo stigma sociale che ha da noi, fa parte della cultura del mercato, da noi “fallito” è una parola più negativa. Così da noi spesso non si accetta il rischio e il grido generale è “lo Stato mi deve proteggere”, che io sia un lavoratore dipendente o un imprenditore.
Il che non vuol dire che quando necessario ci debba essere una protezione, ma il rischio ci deve essere.
In ogni caso c’è effettivamente una difficoltà delle piccole e micro imprese nel crescere, per esempio in quelle familiari, c’è una questione di passaggio generazionale che a volte è difficile e crea conflitti. In altri casi vi è un problema di credito, perchè se parliamo della necessità del rischio, questo ha bisogno di credito, e in Italia per lungo tempo era distribuito nei salotti, era legato a relazioni personali, che dava vita al cosiddetto capitalismo relazionale, più che all’idea e al merito.
E lo abbiamo visto con diversi scandali.
E senza credito le piccole imprese come si finanziano? Con il venture capital, che però è ancora poco diffuso. Prevalgono i modelli tradizionali.
E poi non dobbiamo dimenticare che abbiamo due e più Italie. Quello che si sviluppa nel Nord al Sud magari non esiste. Fare impresa nel Mezzogiorno vuol dire scontrarsi con un’illegalità diffusa, con qualcuno che chiede il pizzo. Quando ero ministro ho avuto modo di conoscere imprenditori che vivevano sotto protezione perché si erano rifiutati di pagare. Ma altri non si rifiutano. Non dobbiamo mai quindi parlare di una realtà unica, è troppo semplicistico.
Quindi passaggi generazionali, mancanza di credito, e poi c’è la burocrazia. Che sappiamo pone degli ostacoli, con imprenditori che ci mettono anni ad avere dei permessi. Questo aumenta il costo degli investimenti e smorza ogni entusiasmo. Magari negli anni in cui il permesso viene ottenuto è cambiato il mercato e le leggi. Anche se la burocrazia di per sè naturalmente non è da demonizzare. Ci sono burocrati fannulloni e disonesti e burocrati capaci ed efficienti e aiutano l’impresa a crescere.
Certo, e non vi è una cultura che invece riconosca valore sociale all'impresa, che è la base con cui si organizza il lavoro, è la modalità con cui il valore aggiunto è prodotto, il reddito dei lavoratori viene distribuito, si genera anche il profitto, così tanto vituperato nel nostro Paese, ma se un imprenditore è un buon imprenditore una parte non piccola di questo profitto è investita nell’impresa per la crescita. Certo che se l’insieme dei costi, anche burocratici o relative alla tassazione, lascia un piccolo margine, come fa a investire? Opera magari una delocalizzazione o rimane di dimensioni contenuti senza prendere dei rischi, ma qui viene mortificato lo spirito imprenditoriale.
Sì, lo vediamo. In molte dichiarazioni e dibattiti pubblici l’impresa è vista come qualcosa di negativo, l’imprenditore quasi un nemico, uno sfruttatore, ed è pericoloso. E’ quella mentalità che attribuisce allo Stato capacità taumaturgiche di creare valore anche laddove ci sono solo delle perdite, da coprire con denaro pubblico.
Ho avuto modo di conoscere e di lavorare con Ursula Von der Leyen, che era ministro del lavoro quando lo ero anche io e che volle incontrarmi all’inizio del nostro governo per dirmi che la Germania era disposta a mettere risorse per l’apprendistato, facemmo un bellissimo progetto a questo proposito di cui purtroppo si sono perse le tracce nei meandri di qualche palazzo romano.
Credo sia una politica di valore che lascerà dei segni di cambiamento. In questa Europa io confido sperando anche che sull’utilizzo delle ingenti risorse che ci dà metta delle condizioni, perchè io vedo con una certa preoccupazione troppi gradi di libertà con un debito come il nostro. Draghi non a caso ha parlato di buon debito e cattivo debito, perchè sa bene che in Italia c’è la tentazione di impiegare risorse una tantum in spesa strutturale, e per spendere dove il consenso politico è più alto. E siccome i giovani di consenso ne generano poco, essendo un gruppo non organizzato e minoritario, i politici preferiscono favorire altri gruppi di età, e quindi c’è il rischio che queste risorse non vengano spese bene.
E dovrebbe essere trasparente ai cittadini il fatto che ci siano queste condizioni, così come dovrebbe essere trasparente che è stato un bene non essere usciti dall’Europa, che è stato un rischio tragico che abbiamo evitato. Si deve insistere su questo concetto. Ci rendiamo conto cosa sarebbe stato del nostro Paese se fossimo usciti e avessimo dovuto affrontare da soli la crisi del Covid19? Non avremmo mai avuto l’assistenza che abbiamo ora. Su queste basi si può spiegare il perchè l’Europa ci chieda qualcosa in cambio. Secondo me la gente capisce, perchè è meno sciocca di quanto i politici non pensino.
Grazie a voi