Docente di Politica Economica a Brescia e in molti altri atenei italiani, il professor Enrico Marelli da molti anni in particolare si occupa di integrazione europea ed economia del lavoro.
A lui abbiamo quindi voluto chiedere un’opinione sulle sfide che l’Italia deve affrontare in questa delicata fase di ripresa e di riforme.
Sarà certamente un anno di ripresa, anche se rispetto alle stime iniziali del precedente governo sarà più lenta. Nella NaDef (Nota di aggiornamento al Def) di fine settembre l’esecutivo prevedeva infatti un +6%. Vi è stata poi la seconda e la terza ondata della pandemia e ora sia l’esecutivo Draghi (nel Def) che le istituzioni internazionali stimano che la crescita sarà attorno al 4% o poco sopra. In questo modo quest’anno si recupererà solo un terzo di quello che abbiamo perso l’anno scorso, ovviamente se la campagna vaccinale andrà bene.
Un recupero completo, se la pandemia sarà sconfitta come tutti speriamo, si avrà solo a fine 2022.
La strategia di contenimento, i cosiddetti lockdown in base ai colori delle regioni, poteva essere impostata prima, e fatta rispettare meglio. Prima finisce la pandemia, meglio è per l’economia, del resto.
Guardiamo al caso inglese. Fino a dicembre e gennaio la situazione era critica nel Regno Unito, e poi grazie non solo ai vaccini, ma soprattutto a un lockdown ferreo, si è ripreso dal punto di vista sanitario e non solo, prima degli altri Paesi.
Un altro fattore importante è il sostegno economico. Che è stato dato fino ad adesso senza un criterio che lo collegasse ai veri settori colpiti, i più danneggiati. Si sono basati solo sulla caduta del fatturato. Ma se fossero dati in modo più selettivo aiuterebbero di più la ripresa.
Ne ha fatto cenno lo stesso Presidente del Consiglio Draghi nel suo discorso di insediamento alle Camere. Questi sostegni non possono essere dati a chiunque, ma a chi ha più probabilità di resilienza, come si usa dire oggi.
Si devono sì compensare le perdite, cosa giusta ed equa anche sul piano sociale, però prima o poi si dovrà discriminare tra le attività e le imprese che hanno davvero capacità di ripartire e quelle che invece purtroppo sono destinate al fallimento
Innanzitutto sulla base dei settori. Sappiamo poi che l’Italia è basata in modo eccessivo su un sistema di piccole imprese, è un problema di lungo periodo e questa crisi può rappresentare un’opportunità per cambiare la struttura della nostra industria avvicinandosi a quella dei nostri vicini europei.
Schumpeter parlava di “distruzione creatrice”. Sul piano sociale sono da aiutare tutti, soprattutto se parliamo di lavoratori, ma se vogliamo pensare al futuro dovremmo dare risorse alle imprese in base al settore e alle condizioni pregresse, alla situazione finanziaria e patrimoniale.
Vi sono imprese zombie che difficilmente potrebbero ripartire.
Ecco, sì, questa può essere l’occasione per una politica industriale rimandata troppo a lungo, pensando anche ai nuovi bisogni dei cittadini. La pandemia ha portato con sé anche un cambiamento negli stili di vita delle persone, nei consumi, nei modi di fare turismo, di lavorare, di studiare.
Alcuni segni saranno permanenti, e si deve tenere conto delle nuove esigenze dei prossimi anni, anche dopo la pandemia.
Anche qui devo richiamare quello che ha già detto Draghi. Quando ha affermato che si deve passare dalle politiche passive del lavoro a quelle attive, facendole funzionare. È questo che finora non è accaduto.
I Centri per l’Impiego non sono stati efficaci e anche i navigator fino ad adesso hanno fatto ben poco. Sono magari anche persone preparate, ma non sono stati addestrati bene. Ci vuole un’innovazione organizzativa molto forte.
Su questo può aiutare molto la digitalizzazione, cui sono destinate del resto molte risorse del Next Generation Eu. Può servire proprio per il mercato del lavoro.
Sentivo che i Centri per l’Impiego della Lombardia non sono connessi tra loro, non si capisce se è un problema di risorse o di capacità, probabilmente di entrambe. Ora le risorse stanno arrivando e se non le usassimo bene sarebbe un’occasione sprecata.
Dipende da questo, ma anche dal fatto che siamo specializzati troppo in settori tradizionali, mentre nel mondo si esportano prodotti di investimento o di alta gamma. Dipende anche da fattori socio-culturali, come il basso tasso di attività delle donne, tra i minori in Europa.
Si tratta di fattori che cambieranno solo nel corso dei decenni, ma questa può essere l’occasione per svoltare.
Da un lato le poche grandi aziende rimaste dovrebbero essere spinte e incentivate all’innovazione e alla ricerca. Ma questo non basta.
Dall’altro i nuovi bisogni, nella sanità nel turismo, nella cultura, nello sport, dovrebbero essere soddisfatti pensando a forme organizzative diverse dal passato, magari con una cogestione pubblico-privata. Il settore pubblico dovrebbe essere l’ideatore/organizzatore di nuove produzioni in questi settori, anche senza pensare a un intervento diretto.
Più che lo Stato, è tutto un sistema integrato pubblico e privato che dovrebbe agire. A cominciare dalla finanza. In Italia sono mancati finora intermediari ad hoc per finanziare tali progetti. Come fondi di venture capital, sostenuti anche dal pubblico, che nel nostro Paese non sono riusciti a emergere come altrove.
E poi vi è da incentivare la formazione: non solo del capitale umano, ma anche dello spirito imprenditoriale di chi avvia la startup
Grazie a voi