Dopo una carriera in Vodafone, dove è stato Direttore Sales & Marketing SME Vodafone Enterprise, Fabio Peloso è ora Chief Commercial Officer di Italiaonline, il gruppo digitale leader in Italia, allo stesso tempo agenzia di comunicazione digitale, concessionaria di web advertising e email provider con 205 mila aziende clienti.
In questo periodo di profonde trasformazioni, in particolare nel mondo del digital, abbiamo voluto sentire il punto di vista di un suo protagonista.
Intanto quelle che chiamiamo pmi sono un esercito al cui interno c’è veramente di tutto. Farei questa osservazione: abbiamo attraversato una perturbazione consistente, e improvvisa tra l’altro, a maggio e giugno c’è stata una certa ripresa, anche sulla scorta dell’entusiasmo di fine lockdown. È stato un rimbalzo piuttosto fragile, umorale, infatti a fronte di un buon luglio e un buon agosto a settembre c’è stato già un rallentamento. Del resto lo scenario porta a un’avversione al rischio.
Ed è questo l’andamento che abbiamo di fronte, momenti di ripresa e slancio e momenti in cui sembra che manchi la terra sotto i piedi.
Esatto, le previsioni vedono un calo del PIL tra l’8 e il 12%, e credo che a questo arriveremo con un andamento sinusoidale. Nel complesso ho visto comunque un mercato che ha reagito, e lo ha fatto in modo trasversale. Se poi lei mi chiede chi ha reagito meglio, allora certo, quelle più piccole in termini per esempio di sofferenza nel credito, hanno avuto più difficoltà.
Se poi parliamo di tipologia di business, il quadro è ancora più chiaro: alcuni settori sono andati particolarmente male, quelli dei viaggi, dell’hospitality, delle fiere, dei congressi, l’automotive, che sono stati fermi per un certo periodo. Poi c’è un altro gruppo che ha visto ridurre il proprio business ma ha saputo reinventarsi in modo diverso, ed è un esempio interessante dal punto di vista della digitalizzazione.
Penso a tutto il mondo della ristorazione, al negozio di quartiere, che si è abituato al delivery. C’è chi ha stravolto poi il business, realtà dell’abbigliamento che si sono messe a fare mascherine, ma si tratta di un altro discorso.
E poi ci sono i settori andati particolarmente bene, tutto il mondo della farmaceutica, quello dei servizi per la casa, in generale tutto ciò che ha a che fare con la salute e il benessere in modo largo, con lo sport ha avuto un grande impulso alla fine del lockdown a maggio.
E poi il mondo TLC e media, trascinato dallo smart working, dalla didattica a distanza ecc, ma anche il food, all’inizio soprattutto la GDO e poi come già detto anche i negozi al dettaglio, cambiando il proprio modello, facendo food delivery, con l’invio a casa degli ingredienti per i piatti.
Sì, hanno dovuto raccontare che lavoravano in modo diverso per raggiungere i loro clienti, e lo hanno dovuto fare in modo differente. E quando c’è attenzione all’investimento in comunicazione che viene fatto c’è anche la necessità di avere informazioni sull’audience, su chi ti legge, su dove abita. E la profilazione del potenziale cliente, che è importantissima, è il nostro pane quotidiano.
Durante il lockdown hanno dovuto bloccare tutto, verso la fine del periodo di chiusura totale però è stato organizzato un Autosalone virtuale, mentre per quanto riguarda i viaggi con le riaperture c’è stato un impulso, ma con riferimento quasi solo alle strutture di hospitality italiane, c’è stato pochissimo estero.
A proposito proprio di hospitality quindi questo in Italia ha investito bene, e ci sono stati del resto dei ritorni, a livello di turismo interno. Altri grandi player nel campo dei trasporti sono rimasti lontani dai grandi budget che si vedevano una volta.
La differenza tra un’azienda tradizionale che entra nel digitale e una startup è la stessa tra una persona della mia generazione e mio figlio di fronte a un device elettronico. Io leggo il libretto delle istruzioni e lui no.
L’azienda tradizionale tende a prendere il proprio modo di comunicare e a trasportarlo sullo strumento digitale, poi quando vi entra in confidenza, capisce che questo può fare pensare in altro modo. All’inizio entra nel digitale per farsi conoscere in realtà.
Le startup entrano per puntare alla performance, generare lead, contatti, ecc, e in modo più agguerrito, perchè è un mondo che ha bisogno di crescere. Hanno molto chiaro chi è il cliente, con chi vogliono parlare, sono più segmentati.
In realtà hanno ovviamente strategie social molto forti, ma vanno anche sui siti tradizionali puntando alla profilazione. Se si occupano di biotecnologie ci sono portali specifici in cui essere presenti, se si occupano di yoga o benessere personale vi è per esempio Dilei. Le startup sono certo un po’ meno generaliste, ma i social non escludono gli altri media, del resto su questi portali oggi è possibile effettuare profilazioni molto precise.
È comprensibile, tutti noi sui siti siamo bombardati da richieste di autorizzazione, quello che posso dire è che spesso le bypassiamo perché pensiamo di essere di fretta, ma vale la pena fermarsi una volta a leggere le autorizzazioni. Capite una volta le si è capite per sempre, c’è una compliance europea. Va prestata la giusta attenzione a quello che si vuole comunicare e a dove si è evidentemente, in quali siti.
Le informazioni sono anonimizzate, è impossibile risalire alla singola persona, e hanno a che fare con il comportamento, cosa interessa, e il modello di navigazione nella rete.
Poi ci sono altre profilazioni, e sono quelle che riguardano i portali con un login, una registrazione ma lì è il cliente che decide cosa vuole esporre cosa no.
Sono stato manager in vodafone per 20 anni e ho visto realtà estere. C’è un gap, anche se questi ultimi mesi hanno rappresentato un’accelerazione molto forte verso il digitale in Italia. Chi era più indietro ha guadagnato più terreno.
Il gap è dovuto anche a un eccesso di burocrazia che così come colpisce l’ambito di azione tradizionale delle aziende si ripercuote poi anche in quello digitale. E poi ci sono vincoli di origine culturale, basti pensare al denaro elettronico: a Londra posso pagare con carta anche l’artista di strada.
Abbiamo visto in questi mesi come è cresciuto il volume dell’e-commerce e tutta l’industria stessa dell’e-commerce, questo presuppone però la capacità di mettere i negozi in rete, di attrezzarsi per ricevere in sicurezza pagamenti digitali, di avere processi tracciati.
Sì, benchè questo sia un periodo particolare credo che quest’anno la pubblicità digitale sia arrivata a valere circa il 50% di tutti gli altri mezzi, televisione, stampa, affissioni, ecc. almeno se consideriamo le piccole e medie aziende che spendono sia nel mondo digitale che in quello tradizionale. Se guardiamo in particolare alle medie si realizzano dei mix di spesa interessanti, con il digitale che ogni anno si mangia quote prima appartenenti agli altri strumenti di comunicazione.
Del resto coloro che sono nati dal 1999 in poi, che non leggono un giornale cartaceo né guardano la televisione, tra due anni saranno il segmento di consumatori più grande, e se l’obiettivo della pubblicità è farti vendere il tuo prodotto è chiaro che non ci si può rivolgere se non al digitale.
Grazie a voi