Francesco Daveri (SDA Bocconi): massimizzare il rendimento dell’istruzione è prioritario oggi

Gianni Balduzzi 05/03/2021

L’MBA della Sda Bocconi è per l’Economist il terzo migliore in Europa e il sesto nel mondo. Per il Financial Times addirittura il terzo a livello globale per il rapporto qualità-prezzo, con un aumento di ben 17 posizioni nel ranking del prestigioso quotidiano inglese, grazie ai salari e alla carriera che consente a chi lo frequenta.

Abbiamo voluto allora incontrare il suo direttore, Francesco Daveri, professore di Macroeconomia, una lunga carriera in più università tra cui Harvard come visiting professor, oltre che come consulente presso la World Bank e il Ministero dell’Economia, per parlare del panorama economico attuale e del ruolo che l’istruzione e la competenza possono giocare.

Buongiorno professor Daveri, intanto complimenti per i risultati e i riconoscimenti ottenuti dal suo MBA a livello internazionale. È certamente un esempio per il sistema universitario italiano

Grazie, chiaramente non commento il prodotto formativo di cui sono il direttore, ma detto questo credo sia utile chiedersi se si fa abbastanza o meno per creare università di serie A e se si cura il valore della formazione, anche pre-universitaria e post-universitaria, e il capitale umano in generale. 

Il master poi è un prodotto di nicchia e di punta nel sistema universitario italiano, che però se la deve giocare con la concorrenza di tante altre realtà che offrono servizi molto simili nel mondo. E quindi di anno in anno ci si deve migliorare sempre. 

Ed è importante perché i dati dicono che c’è un valore nella formazione, e non mi riferisco solo alla Bocconi, ma si riscontra, almeno fino al periodo precedente alla pandemia, una convenienza nel differenziarsi dopo avere terminato la scuola, e si vede bene se si confrontano le carriere dopo l’istruzione terziaria e dopo quella secondaria.

Intende quindi che conviene specializzarsi?

Specializzarsi è ancora un altro e ulteriore paio di maniche. Anche solo per l’acquisizione del capitale umano in generale vi è in realtà molto spazio di espansione anche in un Paese avanzato come l’Italia, perché c’è ancora molta differenza nel livello di istruzione raggiunto in un’area del Paese piuttosto che in un altra, a seconda che si viva in una realtà piccola o più grande. Vi sono molti limiti e ostacoli a un accesso completo ed efficace all’istruzione. Questa tra l’altro è una delle sfide che si troverà di fronte il governo Draghi, rendere effettivo tale accesso

Riuscire quindi a massimizzare il rendimento dell’istruzione è la misura più progressista che si possa immaginare. Non è facile misurare correttamente quanto si guadagna con una certa istruzione, ma vi è un rendimento del capitale umano che è una componente importante degli investimenti che vengono fatti da famiglie e imprese.

Negli ultimi anni c’è stata la percezione, in realtà falsa, che fare l’università in realtà non convenisse

Vero, queste sono convinzioni che però non vanno demonizzate. È vero che non basta mettere da parte dei soldi come famiglia e poi metterli ovunque pensando questi in ogni caso produrranno un tasso di rendimento. Li si deve mettere all’interno di un progetto formativo che ha un senso fin dall’inizio. Non è detto che tutti debbano avere una formazione per esempio da liceo classico, quella che una volta si diceva fosse quella della classe dirigente. Ci sono livelli di formazione e specializzazione formativa che possono produrre rendimenti che sono assolutamente confrontabili.

Sappiamo che l’Italia soffre di un gap di competitività con gli altri Paesi da molti anni. A cosa pensa sia dovuto? C’entra sempre il capitale umano?

Le aziende italiane sono tipicamente piccole, a questo è associata una convinzione, diffusa da molto tempo, che “piccolo è bello”. In realtà piccolo non è nè bello nè brutto, dipende da come vengono investiti gli asset, i risparmi che si hanno a disposizione. Esattamente come avviene con l’istruzione. In base alle risorse si potrà scegliere un'università più o meno titolate, ma ci si deve chiedere se una certa facoltà è più adatta di un’altra, ci si deve pensare dedicando tempo a tale scelta. 

Ci possono essere casi di risorse abbondanti ma spese male, non tutti devono iscriversi alle stesse facoltà perchè sulla carta garantiscono tassi di rendimento più elevati. Non ci si deve fare illusioni: non basta fare l’università e arrivare in fondo per guadagnare buoni stipendi. Ci si deve sempre rimboccare le maniche, per quanto appaia noioso dirlo. E dipende dal progetto formativo globale che si è deciso a percorrere, aiutati dalla propria famiglia a livello finanziario e di orientamento per capire quale sia quello migliore per sé, non solo in termini facoltà da scegliere ma magari anche di percorsi alternativi all’università stessa che ci sono e sono perfettamente plausibili perché non è detto che tutti debbano per forza laurearsi.

Un progetto formativo globale che può comprendere quindi alla fine anche la formazione presso le aziende?

Certo, anche se qui la questione diventa un po’ più complicata. Non si può guardare solo ai risultati in termini di redditi finali pensando che quel percorso sia buono per tutti. Può essere che uno abbia iniziato da punti di partenza molto diversi, e sia avvantaggiato, perchè magari veniva da un contesto familiare, culturale, e anche geografico favorevole.

Non considerare questo vorrebbe dire fare coltivare speranze mal riposte. Non possiamo fare pensare che l’importante sia stare parcheggiati in università e prendere il pezzo di carta che poi qualcosa succede. Non serve se non è associato a un rendimento dell’istruzione che viene misurato con quello che individualmente si riesce a fare dopo. 

Un rendimento monetario se si fa una facoltà notoriamente associata con risultati positivi sul mercato del lavoro, come economia o ingegneria. Ma in realtà anche un’università che produce più laureati con tassi di rendimento monetario inferiori, perché provenienti da facoltà meno tecniche, più umanistiche, avrebbe senso se risponde al progetto individuale

Quello che dovremmo fare di più è porci domande che riguardano i singoli, i percorsi di carriera con un senso per sé. E la risposta non è sempre iscriversi a economia o ingegneria, anche perchè non tutti sono portati a fare gli ingegneri per esempio. 

Ci sono lauree o percorsi di carriera molto professionalizzanti che hanno a che fare con la moda o il design e i cui rendimenti non sono legati al numero di anni di università che si sono fatti, e sarebbe stupido chiudere gli occhi di fronte a queste possibilità.

Tornando alle aziende, quali sono secondo lei le caratteristiche di fondo del mercato italiano delle imprese che possono essere dei difetti e invece quali invece dei pregi?

Sicuramente la capacità di saper disegnare i percorsi di carriera in modo quasi artigianale può essere visto indubbiamente come una caratteristica almeno di una parte rilevante delle aziende italiane, certamente a livello top, per esempio nel lusso, ma rappresenta un metodo di coltivazione del capitale umano specifico piuttosto diffuso. 

D’altro lato come ho detto vi è la questione del “piccolo è bello”, piccolo non è bello necessariamente, lo è se è associato a scelte coerenti: se uno deve cercarsi opportunità di carriera è meglio farlo nelle grandi città per esempio. 

Essere piccoli non vuol dire però essere tutti condannati a rimanerlo, perchè in realtà l’Italia è piena di casi di successo partendo da dimensioni ridotte. È vero che “uno su mille ce la fa”, ma quello che ce la fa esiste e quando esiste può fare la differenza.

Vengono in mente le startup, che anche in Italia sono cresciute, spesso partendo da dimensioni molto piccole, magari dall’ambito universitarie. Lei che idea si è fatto di questo fenomeno?

Io osservo professionalmente quello che accade in questo ambito, all’interno delle Bocconi è una delle aree di maggiore attenzione.

È però ad alto rendimento e ad alto rischio. Non bisogno dimenticarselo. Non per scoraggiare la nascita di startup, ce ne sono ancora troppo poche in Italia, ma si deve accettare il concetto di rischio e rendimento che vanno insieme.

E secondo lei questo non è stato ancora ben accettato in Italia?

Insomma, noi vorremmo avere basso rischio e alto rendimento, tutti cerchiamo di andare in questa direzione. Ma si deve accettare il fatto che alcune scelte che facciamo ci portano un basso rendimento perché tutto sommato non vogliamo andare incontro a rischi troppo grandi, mentre si deve essere consapevoli di quello che si rischia se si vuole ottenere qualcosa di più, e questo vale sia quando l’investimento è in capitale umano che quando è finanziario.

Tra l’altro quello in capitale umano è anzi quello che rischia di essere più illiquido. Con quello finanziario se mi accorgo di avere sbagliato posso perlomeno spostare il mio denaro da una destinazione all’altra.

Saper scegliere implica essere maturi e consapevoli delle possibilità in gioco e non è sempre facile, ci si può scottare facilmente

Immagino abbia letto il PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza del governo, secondo lei vi sono punti di forza, carenze, cosa andrebbe aggiunto e cambiato?

Credo che il nuovo governo si metterà al lavoro su questo, e i temi saranno esattamente gli stessi che abbiamo toccato qui. Il Next Generation EU non può sfuggire a questi problemi.

Una cosa che è stata lasciata fuori, a cui non si è pensato, è il fatto che vi è il tasso di rendimento, non basta investire 209 miliardi per avere automaticamente risultati. Alcuni investimenti, come appunto quelli in capitale umano, sono molto illiquidi, come ho detto, e questo vuole anche dire che alcuni risultati si vedranno tra 20 anni, e fino ad allora? Bisogna esserne consapevoli, sapere che occorre mettere da parte risorse nell’attesa che tali risultati emergano, come avviene in un’azienda, una startup che darà utili in là nel tempo. 

Il professor Bianchi infatti faceva notare che il Piano sembri implicare un moltiplicatore basso negli impatti previsti

Sì, possiamo aspettarci che il rendimento di questi investimenti sia basso dall’oggi al domani. E non è uguale per ogni intervento, c’è quello a lunga e breve scadenza, quello più liquido e meno liquido. 

Non è detto che un euro messo per costruire delle infrastrutture in una zona d’Italia dia lo stesso risultato che in un’altra.

Quello che si dovrebbe fare è commisurare le azioni a quello che ci si aspetta da un dato investimento. Se uno produrrà risultati solo in 20 anni non è che non li si debba fare, ma ci si deve comportare di conseguenza. Il governo dovrebbe chiarire bene qual è l’orizzonte temporale su cui si ragiona.

La ringrazio molto professor Daveri

Grazie a voi


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