Guido Brera "Lo Stato dovrebbe dare vita a veicoli pubblici per capitalizzare le piccole imprese"

Gianni Balduzzi 24/07/2020

Guido Maria Brera, co-fondatore e oggi CIO Asset Management di Kairos, è tra i maggiori conoscitori del mondo della finanza e in generale del capitalismo italiano. Di cui ha scritto nel libro, divenuto serie TV, i Diavoli. Lo abbiamo intervistato per capire come la pensa sulle evoluzioni più recenti dell’economia in quest’epoca incerta.

Come prima domanda vorrei chiederle quale è il lascito più importante di questa crisi, del resto ancora in corso, nell’economia italiana. Cosa sta cambiando maggiormente?

Io dico sempre che non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema. Ora questo “veleno” (la crisi), che dovremmo trasformare in medicina, è stato un acceleratore sia per chi stava male che per chi stava bene. In un certo senso è stato crudele, agendo come il Covid, che fa danni ai corpi più debilitati. Lo stesso è avvenuto nell’economia.

Sono aumentati i divari, molte aziende meglio attrezzate, già ben posizionate sono ulteriormente migliorate, quelle digitali, leggere. Le altre che già erano in difficoltà si sono ritrovate in una sorta di trappola evolutiva, per cui l’ambiente intorno è cambiato troppo in fretta senza lasciare il tempo di adattarsi. E questo divario tra le due tipologie di aziende si allargherà sempre di più.

C’è anche un lascito positivo, si scopre l’importanza dell’ambiente, davanti all’evidenza del ruolo dell’inquinamento nell’epidemia di Covid. Milano, che si è venduta come città green, si rivela fragile e debole e guarda ai propri problemi, li affronta per fermare quella strage silenziosa provocata da anni di inquinamento.

Cosa intende per aziende meglio o peggio attrezzate?

Quelle aziende che grazie anche a una globalizzazione a tratti iniqua hanno saputo cavalcare la rivoluzione digitale e/o che hanno potuto applicare contratti di lavoro a esse favorevoli, come nella logistica, nel food delivery, che oltre a essere digitali, dobbiamo dirlo, avevano già cominciato a fare outsourcing dei rischi verso i lavoratori. 

E poi aziende già sane che avevano strutture leggere, magari nessuna filiale, presenza solo online, queste stanno vincendo. Invece tutta quella economia reale che si stava ancora riconvertendo ha accelerato la propria fine.

Nell’introduzione all’ultima edizione de I Diavoli afferma che alcuni dei mali attuali hanno avuto origine in quelli che dovevano essere i rimedi della precedente crisi. Cosa intende? Potrebbe applicarsi anche ora?

Assolutamente sì, la liquidità immessa nel sistema è come cortisone, spegne il sistema immunitario, gli anticorpi che una società ha sempre avuto per ribellarsi alle ingiustizie. Questa liquidità viene indirizzata solo a chi ha, chi non ha non possiede i canali per attingervi. 

Del resto nell’immediato non si poteva far diversamente. Il vero tema è stata la latitanza della politica negli ultimi 30 anni. Abbiamo affidato la soluzione dei nostri mali a risposte solo finanziarie. Il Quantitative Easing per esempio era necessario, ma non sufficiente. Sarebbe ingiusto parlarne male però. Dobbiamo parlare male della politica che lo ha usato come alibi per non fare altro.

Per esempio per mettere delle regole. Non è possibile produrre in un posto, inquinare in un altro, mettere la sede fiscale in un altro posto ancora, assumere dipendenti dicendo che sono imprenditori per non pagare ferie e altri diritti sociali, spedire merci in ogni luogo del mondo, fare tutto quello che si vuole senza pagarne il prezzo.

Nel tessuto economico italiano quali sono i pregi e i difetti maggiori delle piccole imprese?

Il pregio è certamente il talento, il difetto è l’assenza di un sistema. In Francia, in USA, in Germania un sistema c’è, ovvero uno Stato che fa regole chiare e che aiuta per esempio anche nella capitalizzazione. Per esempio in Germania, dove c’è un istituto ad hoc a questo scopo, come in Francia. 

Per non parlare degli USA, dove il confine tra azienda e Stato è labile. Google e Facebook sono partite anche grazie a uno Stato imprenditore, ovvero che ha sempre cercato di creare un ecosistema su misura per le aziende, per esempio con finanziamenti alla ricerca di base che poi ha messo a disposizione delle imprese. Non ci sarebbe mai stata la Silicon Valley senza uno Stato che ha creato le condizioni migliori per provocare vicinanza tra chi fa ricerca e sviluppo pubblica e il privato che ne ha potuto approfittarne, tramite per esempio collaborazioni tra università e aziende

Mentre in Italia non vi è assistenza dello Stato, c’è un mercato di capitali asfittico, proprio in uno dei Paesi con il maggiore risparmio. I più grandi asset allocator hanno dato soldi a fondi di private equity stranieri che poi investono in società prevalentemente straniere

Ecco, a questo proposito cosa potrebbe fare lo Stato per veicolare il risparmio verso le piccole imprese e le startup?

In parte lo ha fatto, con le agevolazioni per i finanziamenti a startup innovative, anche se troppo tardi. L’avrebbe potuto fare 10 anni fa e paghiamo un ritardo, ma qualcosa di nuovo è successo.

Ora potrebbe curare la nascita di veicoli alimentati da risparmio privato che investano in startup, in venture capital, che è poco in Italia. Veicoli pubblici che facciano da leva. Si tratta di fare il primo miglio, e il primo miglio solitamente si fa con il pubblico

Se lei si trovasse davanti un imprenditore alle prese con la costruzione di una piccola impresa cosa si sentirebbe di dire?

La cosa più importante è partire con le idee chiare, investire in ricerca e sviluppo, avere un business plan delineato per fare in modo di non trovarsi a un certo punto corti di capitale, tanto da dover vendere per questo motivo

Per molti l’obiettivo è invece fare una exit, anche abbastanza presto, il suo consiglio è attendere, rafforzarsi, fare aumenti di capitale senza però concedere la maggioranza?

Esattamente, di farsi bene i conti, di non essere impreparati su questo versante

E se avesse davanti un investitore davanti cosa gli consiglierebbe?

Se fossi in lui vorrei vedere un imprenditore che metta tutto il proprio lavoro e capitale nell’azienda, che deve essere veramente innovativa, e non solo creata per bypassare le regole o i diritti dei lavoratori. Una parte delle startup è basata proprio sulla disintermediazione selvaggia, che può andare bene fino a un certo punto. Consegnare pizze a domicilio non è essere una startup innovativa, c’è solo un algoritmo che ha scaricato i rischi di impresa sui lavoratori, e questo a me non fa impazzire.

Fondamentalmente si deve saper distinguere e privilegiare  tra le aziende quelle che fanno ricerca, innovano e aumentano la produttività, la sfida è questa.

Grazie mille a Guido Maria Brera, e buon lavoro

Grazie a voi




Potrebbe interessarti anche:

business management innovation economy

L'Innovation Manager: chi è, cosa fa, quanto guadagna

innovation economy

Cos'è una smart city? Definizione e caratteristiche

startup & pmi innovation economy

Come siamo ripartiti investendo sull’economia reale: così racconterò questa crisi a mia figlia