A Berlino, dati della città-land, le startup sono il settore con il tasso di crescita dell’occupazione maggiore, in due anni i posti creati sono stati 19 mila, corrispondenti a un aumento del 32%. Da Zalando in giù, le maggiori creatrici di lavoro sono quelle FONDATE negli ultimi 5 anni, incluse le più piccole, infatti le 10 maggiori occupano solo il 17% dei lavoratori del settore, con una concentrazione quindi molto bassa.
Numeri simili, 19 mila, nei Paesi Bassi, ben più grandi della città di Berlino, certo, ma anche qui l’aumento del 23% in due anni rappresenta il maggior incremento nel pur già dinamico mercato olandese, quasi doppiando quello nell’ ITC. Anche in questo caso il più grande aumento, del 56%, riguarda quelle più giovani, con meno di 5 anni, e il 55% ha meno di 10 addetti.
Guardando più in grande, negli USA le startup anche più etimologicamente tali, ovvero le aziende nate da meno di un anno, dal 2010 hanno ricominciato ad accrescere il numero di nuovi posti di lavoro aggiunti al mercato, dai 2,5 milioni di quell’anno ai 3,1 del 2019. Dal 1999 erano invece sempre diminuiti, probabilmente perchè si trattava principalmente di nuove attività più tradizionali più che di startup come le conosciamo oggi, in settori innovativi. Certamente hanno costituito una parte importante dei 18 milioni di occupati in più oltreoceano nello stesso periodo di ripresa.
Questi numeri, pur molto parziali, indicano che laddove il mercato delle startup si è sviluppato crea lavoro. Lavoro per giovani soprattutto, e del resto giovani sono in gran parte gli imprenditori.
E’ vero, le startup hanno un tasso di fallimento alto, del 90% in 10 anni, e del 57%, nella UE, in 5 anni, secondo Statista, e di conseguenza il turnover tra i dipendenti è alto. Tuttavia per chi ha meno di 40 anni (spesso anche meno di 50) la precarietà è quasi la normalità. La percentuale di quanti hanno un contratto a termine o sono obtorto collo delle partite IVA è in crescita, soprattutto alle nostre latitudini, in Italia, Spagna, Grecia. Non sono certo le startup ad aggiungere precarietà al sistema.
Anzi, al contrario di quelle che vedono nel proprio organico dipendenti dall’età media sempre maggiore, e che in caso di crisi rinunciano a quelli di “serie B”, ovvero a tempo determinato, ovvero i più giovani, le startup assumono in grandissima parte under 30 under 40, tanto che per esempio in USA la cosa ha creato polemica, c’è chi ha gridato a discriminazioni al contrario verso professionisti senior, soprattutto i decenni scorsi, agli albori della Silicon Valley.
La differenza con altri tipi di impieghi ugualmente e spesso più temporanei è però soprattutto un altro, e riguarda la qualità del lavoro più che la quantità di nuovi posti creati e l’età media, e consiste nel fatto che mediamente nelle startup si fa innovazione, si lavora a contenuti, progetti, prodotti sulla frontiera tecnologica.
Una delle cose di cui gran parte dei nuovi imprenditori va fiero, e che racconta ai tanti cui presenta l’azienda, è la percentuale delle spese (e naturalmente dell’utile, quando arriva) destinata alla voce Ricerca e Sviluppo, prima ancora dei margini che stanno venendo realizzati o che si prevede di raggiungere in futuro.
Vuol dire che queste aziende rappresentano una ricchezza non solo per il prodotto che generano, per lo stimolo che pongono ai grandi player che spingono a loro volta a innovare, cosa che magari fanno tramite profittevoli acquisizioni, ma soprattutto per l’arricchimento del capitale umano che nei loro uffici si produce.
Si tratta di una palestra per le skill dei giovani, molti laureati, ma non solo, che lavorano e si mettono alla prova in ambienti che chiedono loro molto spesso di andare oltre le nozioni imparate negli studi, di acquisirne di nuove a un ritmo che difficilmente si potrebbe ritrovare in aziende più strutturate, saltando le tappe.
Anche nella peggiore delle ipotesi, quella di una startup che non riesce a sopravvivere negli anni, i suoi lavoratori con tutta probabilità finiranno in altre aziende, anche grandi multinazionali, e porteranno quella preparazione, quelle competenze e quella forma mentis apprese nel periodo di lavoro in startup e piccole aziende innovative. Competenze per cui l’impresa beneficiaria non pagherà nulla e si ritroverà.
E’ per questi motivi che investire in venture capital non è solo un modo intelligente per diversificare il proprio risparmio, se vogliamo vederla in senso “individualistico” o per aumentare la produttività e la crescita futura dell’economia, a guardarla da un lato macroeconomico.
Si tratta di investire nel capitale umano del futuro, che è l’unico asset potenzialmente inesauribile e non deprezzabile a disposizione di quei Paesi che non hanno petrolio o materie prime di cui fare i rentier.
In un momento in cui i capitali pubblici hanno fortissimi limiti, e ne avrebbero anche se fossero usati nel modo migliore, aiutare le fucine di talenti e professionalità che sono gran parte delle startup e delle pmi innovative appare forse l’unico modo per garantire che un Paese abbia sempre a disposizione le competenze che servono alla sua crescita, oltre le crisi congiunturali che possono colpirlo.