Unire la tradizione artigianale italiana di eccellenza, come quella rappresentata dal distretto calzaturiero marchigiano, alle ultime tecnologie digitali. Questa è stata la sfida di Velasca, azienda calzaturiera nata nel 2013 dall’intuizione di founder che non provenivano dal settore, ma che avevano capito che era possibile innovare anche in questo ambito conservando, e, anzi, accentuando quel carattere di artigianalità che dona qualità a un prodotto interamente realizzato in Italia.
Abbiamo voluto incontrare uno di loro, Jacopo Sebastio, per conoscere meglio la loro realtà, e capire la loro vision.
Velasca nasce nel 2013 con l’obiettivo di portare un prodotto ad elevato contenuto di artigianalità direttamente al consumatore finale eliminando ogni intermediazione.
Abbiamo quindi cercato canali che potessero sviluppare un buon volume di vendite e consentirci di interagire direttamente con i clienti in tutto il mondo.
Da un lato l’e-commerce ci permetteva di superare i confini nazionali e le barriere geografiche, dall’altro la comunicazione digitale, tramite social, blog, testate giornalistiche ci consentiva di raggiungere una determinata audience con cui instaurare un rapporto e da inserire in un processo che sfociasse poi con l’acquisto.
Tali canali sono stati un asset che hanno favorito l’affermazione di quel modello direct-to-consumer che avevamo in mente. Ci permette allo stesso tempo di realizzare un prodotto di qualità al giusto prezzo, perché vengono tagliati i mark-up dell’intermediazione, e di avere una relazione diretta con il cliente.
Siamo partiti in effetti con questa definizione, ma in realtà sarebbe più corretto dire che quello che vogliamo dare al cliente è un prodotto al suo giusto prezzo. Vi sono linee di calzature di grande qualità a 700 euro che non sono accessibili al consumatore medio, ma certamente sono al prezzo corretto, anche considerando che la concorrenza esce a 1.400 euro.
Poi naturalmente vi sono anche prodotti dal prezzo oltre che giusto anche accessibile.
È vero, abbiamo un punto di vista privilegiato, come dice. Siamo infatti partiti come realtà interamente digitale, anche se abbiamo dopo un anno e mezzo diversificato con l’apertura di un negozio fisico, cosa che ci ha permesso di decuplicare il fatturato nel giro di un mese.
La natura del prodotto venduto, il fatto che lo scontrino medio non fosse basso, ma sui 200 euro, rendeva poi necessaria un’interazione anche fisica con il cliente. Siamo diventati omnicanale. Nel 2019, prima della pandemia, le nostre botteghe contavano per il 45% del fatturato, ed erano, e sono, decisive, perché spesso chi acquista offline in seguito lo fa anche online.
Nel 2020 siamo riusciti a portare tutti i clienti delle botteghe a comprare in rete e poi siamo tornati alle stesse proporzioni tra online e offline che vedevamo pre-Covid.
La fascia che acquista più spesso da noi è quella tra i 30 e i 40 anni, per il 95% di genere maschile, perché abbiamo investito tanto su prodotti per uomo. Da ottobre abbiamo lanciato la nostra collezione donna, e in questo caso vediamo una distribuzione più omogenea a livello di età, ci sono più giovani e più anziane.
Si tratta principalmente di working professional che comprano magari inizialmente la scarpa artigianale da lavoro o da cerimonia e poi anche da tempo libero.
Non è cambiata la clientela, bensì il tipo di prodotto acquistato, il che è ancora più interessante. Per esempio durante la pandemia un avvocato napoletano che esercitava a Milano e che comprava principalmente scarpe classiche si è trasferito al Sud per lavorare in smart working e ha acquistato online un paio di scarpe casual per passeggiare lungo il mare.
È solo un esempio, più in generale è cambiato quello che il cliente vuole dal brand.
Sicuramente un modello come il nostro consente di superare le barriere geografiche in maniera abbastanza agevole se si hanno delle competenze sull’acquisizione dei clienti.
Servono skills per crearsi un’identità di brand, che poi evolve. La Velasca di oggi ha un'immagine ancora più autorevole e affidabile di un tempo.
L’altro nostro asset è stato rappresentato dalla produzione a chilometro 0, che ha dei costi, ma si è rivelata una soluzione vincente durante la pandemia quando tutta la supply chain asiatica è saltata. Non siamo stati impattati.
Il modello di business che adottiamo ci consente di trasportare un prodotto locale in un’ottica globale, e ci permette di acquisire clienti ovunque, di spedire su più fusi orari sette giorni su sette 24 ore su 24
Realizziamo il 40% del fatturato fuori dall’Italia, Vendiamo principalmente negli Usa e in Francia, e poi nel Regno Unito, in Germania, in Danimarca.
Dunque, il mio background è finanziario, e mi sono chiesto più volte come mai devo essere io, milanese, estraneo in origine al settore delle calzature artigianali, a dover fare questo lavoro.
Forse è perché gli artigiani spesso non riescono a possedere conoscenze che vadano oltre il particolare, il saper fare molto bene una calzatura.
La soluzione è quindi mettere a fattor comune esperienze diverse, creare un piano di formazione che includa, oltre alle conoscenze tecniche su come si produce una calzatura, anche competenze commerciali. È indispensabile per ovviare ai rapidi cambiamenti di contesto, quando, per esempio, un mercato crolla e si deve essere capaci di riposizionarsi.
Ecco perché nel caso di Velasca siamo stati noi, dei milanesi provenienti da altri ambiti, che abbiamo non solo fondato un’azienda, ma inaugurato un modello di business che può essere applicato anche in altri segmenti dell’artigianato di design.
Ci piacerebbe anche creare una Velasca Academy, per diffondere le nostre competenze nel campo del financing, del performance marketing o della creazione di contenuto verso altre realtà artigianali.
Quello che va cambiata in ogni caso è la mentalità delle persone. Spesso alla guida delle piccole aziende artigianali vi sono famiglie bellissime ma un po’ restie al cambiamento. Anche per questo tali imprese rimangono piccole.
La trasformazione digitale aiuta a superare questo ostacolo. Nel caso di Velasca l’ha fatto sicuramente.
Sì, ma se devo riferirmi ancora alla nostra esperienza, direi che all’inizio non abbiamo neanche cercato delle competenze specifiche, quanto delle persone provenienti da settori differenti ma con grande talento, curiosità, spirito imprenditoriale. Giovani che volessero mettersi in gioco, con voglia di formarsi e di studiare. È questo che consiglierei di fare.
Grazie a voi