Negli anni scorsi l’OCSE ha svolto una indagine sulle conoscenze finanziarie delle popolazioni dei Paesi del G20, ovvero le economie leader nel mondo. Una delle domande chiedeva se ricevendo una donazione di 1000 euro (o dollari, o altro) e con una inflazione dell’1% dopo un anno si sarebbe stati capaci di acquistare gli stessi beni di 12 mesi prima, di più o di meno. Solo il 48% degli italiani ha dato la risposta esatta, peggiori delle nostre furono solo le performance di sauditi, indonesiani, sudafricani, e pochi altri.
Tra i tedeschi invece è stato il 71% a dare la risposta giusta, così come tra i sudcoreani, nonchè il 59% dei francesi e il 65% degli olandesi, dei russi, e anche dei brasiliani, oltre al 70% dei cinesi.
Questa è solo una delle domande, un’altra in cui si chiedeva se si ritenesse vero che per minimizzare il rischio insito nell'investimento in azioni fosse consigliabile diversificare solo il 37% degli italiani ha risposto positivamente, contro il 59% medio degli intervistati degli altri Paesi del G20.
Dato forse ancora più significativo, solo il 27% dei nostri connazionali affermava di avere obiettivi finanziari di lungo termine e quindi di cercare di raggiungerli. Sono il 68% in Cina, il 61% in Francia, il 59% in Germania.
E del resto appare chiaro che se mancano competenze finanziarie di base sarà difficile programmare investimenti o accumulare risparmi in modo efficiente. E certo sarà ancora più difficile che questo risparmio, quando ci fosse, possa prendere la strada dell’economia reale e delle imprese.
E’ questa forse l’altra faccia della medaglia del discorso sulla sottocapitalizzazione delle imprese e del mancato sviluppo di un mercato dei capitali avanzato. Da un lato vi è sicuramente l’azione indispensabile del legislatore nel migliorare e incrementare gli incentivi, dall’altra questa può avere un impatto veramente limitato senza che a monte vi siano le competenze per poter sfruttare tali incentivi. E tuttavia anche queste sono, seppur in modo diverso, responsabilità di chi si occupa della cosa pubblica.
Un grande gap tra gli l’Italia e per esempio altri Paesi europei è la percentuale estremamente bassa di popolazione, anche giovane, con una laurea. Si tratta di poco più del 30% tra i 30enni. Solo i rumeni fanno peggio nella UE.
Non dobbiamo però fare l’errore di pensare che basti migliorare questa statistica per avere una popolazione più predisposta a comportarsi in modo più efficiente e sofisticato da un punto di vista finanziario.
Le conoscenze medie degli italiani con un titolo universitario in questo campo sono certamente superiori di quelli di chi si è fermato alle scuole superiore o prima, ma rimangono ancora inferiori, e questo è significativo, a chi ha solo un diploma nei Paesi più avanzati d’Occidente. Vuol dire che conta anche cosa e come si insegna già nelle scuole.
Una conferma viene dai test Invalsi, che si sono occupati anche di conoscenze economiche.
Nel 2018 i 15enni italiani non solo avevano ottenuto un punteggio inferiore a quello medio dei Paesi OCSE e a quello di tutti gli altri Paesi dell’Europa Occidentale, ma erano anche stati gli unici a peggiorarlo rispetto al 2015.
Solo il 35,5% degli studenti sa cosa sia un tasso d’interesse, contro il 54,5% medio OCSE, solo il 37,5% sa parlare di quote e azioni (46,5% negli altri Paesi),
Ma il dato peggiore forse è quello che riguarda i punteggi in base allo status socio-economico: coloro che sono più lontani dalle medie internazionali non sono coloro che sono nati in famiglie svantaggiate, ma i ragazzi che invece vivono nei nuclei con i redditi maggiori. Vuol dire che anche tra le élite o presunte tali vi sono carenze di cui è responsabile il sistema scolastico
Da alcuni anni in Italia sono stati introdotti nuovi insegnamenti, già negli anni delle superiori, è arrivato il Liceo Economico-Sociale, e si tende a sperimentare un po’ di più. Tuttavia senza un impegno per investimenti maggiori, anche pubblici, come l’assunzione insegnanti esperti anche in materie finanziarie, nel breve periodo poco potrebbe realmente cambiare, non certo quel riflesso condizionato che viene da lontano che porta a considerare le materie economiche di serie B.
La scuola italiana è stata progettata più per dare un’istruzione di base a una popolazione che fino a pochi decenni fa aveva una percentuale di analfabeti enorme, per insegnare a leggere e scrivere, insomma, che a fornire competenze specialistiche e avanzate. E’ una struttura che non è cambiata nel tempo, tanto che lo Stato spende più di 6100 euro per ogni alunno delle elementari, superando anche la Francia, ferma a poco più di 5500 (dati Eurostat, 2017, euro PPP), mentre se si passa alle superiori la cifra cresce nel nostro caso a 7.187, ma a ben 9.458 Oltralpe e a 9.594 in Germania. E all’università il gap diventa ancora maggiore, considerando che i nostri stanziamenti rimangono gli stessi, anzi di qualche decina di euro inferiori, mentre in Francia si sale a quasi 10 mila euro per studente e in Germania a 13.176.
Chiaramente l’aumento della spesa in istruzione superiore e universitaria non è sufficiente, il tema qualità vs quantità è sempre attuale, basti pensare alla necessità di un ringiovanimento del corpo insegnanti, che nel caso italiano è quello più anziano del mondo, con un'età media superiore ai 50 anni sia nella scuola che all'università, ma certo è necessario.
Avere più fondi a disposizione per i giovani e le loro competenze, dopo che per decenni la priorità è stata la spesa di tipo assistenziale ed elettorale a favore delle generazioni più anziane, è il primo step perché poi questi fondi siano utilizzati per accrescere le conoscenze finanziarie di cui in Italia c’è urgente bisogno, perché sono quelle che sono indispensabili a un mercato di capitali maturo, quelle che possono abbattere i muri e la diffidenza che l’ignoranza produce verso gli investimenti in fondi, in imprese, in startup.