Marco Marazzi (Fondazione Italia-Cina): "Le aziende italiane devono osare di più in Cina"

Gianni Balduzzi 02/04/2021

Avvocato d’affari per lo studio Baker Mckenzie, da 25 anni si occupa di investimenti e commercio internazionale. Avendo vissuto per diversi anni a Pechino, Shanghai e Hong Kong il suo focus è in particolare sui mercati asiatici. 

I rapporti con la Cina lo hanno portato a diventare membro del board della Fondazione Italia-Cina del 2020, ed è in questa veste che abbiamo voluto incontrarlo, per capire meglio cosa si muove in quell’angolo sempre più dinamico del mondo e quale influenza può avere sull’Italia.

Buongiorno dottor Marazzi, grazie per avere accettato il nostro invito. Innanzitutto di cosa si occupa la fondazione Italia-Cina?

Il suo scopo è promuovere, facilitare i rapporti economici e gli scambi commerciali tra Italia e Cina. È stata fondata da Cesare Romiti e da anni è un punto di riferimento sia per le aziende cinesi che investono in Italia che per quelle italiane che investono in Cina. Quasi tutte le grandi imprese che hanno rapporti con la Cina sono rappresentate nella fondazione. 

Come ha reagito alla pandemia tutto il mondo che gira intorno all’interscambio tra Italia e Cina?

Con difficoltà. La pandemia ha comportato un blocco dei viaggi del personale, tecnico o commerciale. Per cui le aziende che avevano già una presenza strutturale in un Paese o nell’altro sono potute andare avanti a lavorare e fare operazioni anche interessanti, soprattutto nel breve periodo di tregua in estate, fino a ottobre, mentre le altre hanno avuto maggiori difficoltà. 

In particolare le aziende italiane, perché la Cina ha regole più ferree per chi vuole entrare nel Paese, con visti più difficili da ottenere, quarantene obbligatorie che possono arrivare fino a 21 giorni, e fatte seriamente, nei Covid hotel, dove si deve rimanere in una stanza per tutto il periodo.

Queste restrizioni hanno messo in difficoltà l’operatività, ma le merci hanno continuato per fortuna a viaggiare. Da questo punto di vista il problema principale è il costo dei noli marittimi. C’è stato un aumento importante, un po’ dovuto al fatto che le compagnie di navigazione sostengono dei costi per la compliance alle normative anti Covid, per esempio nell’ambito delle procedure doganali, e un po’ perché c’è un’offerta minore, visto che alcune compagnie si sono ritirate dal mercato.

Hanno un po’ compensato i trasporti ferroviari, che però sono adatti solo per alcune tipologie di merci, non troppo ingombranti, come l’abbigliamento, o alcuni tipi di alimentari. Seguono la via della Russia, e mentre anni fa ci mettevano 18-20 giorni, ora riescono ad arrivare in Europa e in Italia in 12-13. 

E così anche l’aereo, che nei primi due o tre mesi della pandemia è stato importantissimo, con compagnie aeree che hanno convertito gli aerei passeggeri in aerei cargo

Molti sostengono che con la pandemia “la Cina ha vinto” da un punto di vista economico. A suo avviso come cambieranno i rapporti tra la Cina e l’Occidente dopo l’emergenza?

Che la Cina fosse indirizzata in una traiettoria che prevedeva a una crescita del PIL tale da superare gli Stati Uniti non era una questione di se ma di quando. Per un motivo semplice: che la popolazione è il quadruplo di quella americana. E se solo un quarto della popolazione cinese diventa di classe media, ora lo è un sesto, un settimo, la Cina diventa più ricca degli USA. È una questione di numeri. 

Per ora però il PIL pro-capite, anche calcolandolo a parità di potere d’acquisto, non è paragonabile a quello di un americano, ma anche di un francese o di un italiano. Soprattutto se parliamo di un cinese di Chengdu e non di Shanghai. 

È a livelli che in qualche anno si avvicineranno a quelli dell’Est Europa. 

Sul discorso dell’avere vinto o meno c’è un po’ di propaganda da una parte e dall’altra. Il governo cinese ha sottolineato come il successo delle misure anti contagio applicate in modo così rigoroso, con l’ausilio di una tecnologia molto pervasiva, significhi che il sistema politico cinese sia migliore, perché consente di raggiungere risultati migliori. Dall’altra parte gli USA e l’Occidente rivendicano il primato della libertà, anche se con una minore efficienza nella lotta alla pandemia.

Ma questi discorsi lasceranno il tempo che trovano nel momento in cui ci si renderà conto che per la ripresa mondiale, piaccia o no, ci sarà bisogno sia degli Stati Uniti che della Cina

Tra l’altro una Cina che fosse caduta in una crisi economica devastante sarebbe stato uno svantaggio per tutto il mondo. Perché questa avrebbe creato l’interruzione delle catene del valore, una carenza di componenti per l’industria europea, e avrebbe anche significato nel lungo periodo la migrazione di milioni di persone in fuga dalla crisi.

Tornando all’Italia, come sono viste le aziende in Cina, sia dai consumatori che dagli imprenditori cinesi?

Ci sono due livelli. Da una parte il cittadino cinese comune che non fa molta differenza tra Italia, Germania, Francia, al massimo distingue tra europei e americani, si viene tutti inquadrati come occidentali, e l’Italia è nota più che altro per le città d’arte, il calcio, la moda, il lusso, spesso con semplificazioni folkloristiche.

Chi invece opera in campo economico apprezza dell’Italia anche molto altro. Per esempio la nostra meccanica, che è la prima voce dell’export italiano. Esportiamo moltissimi macchinari e componenti di macchinari in Cina, in particolare da Lombardia, Emilia Romagna, Veneto. Ma anche la chimica e il settore farmaceutico si stanno facendo strada, anche se non abbiamo le big pharma.

Quali sono i punti di forza delle aziende italiane che sono riuscite a penetrare nel mercato cinese? E i punti di debolezza? Per esempio in confronto a quelle tedesche o francesi

Un punto di forza è la similitudine tra il modo di ragionare dell’imprenditore privato, soprattutto se a capo di aziende a carattere familiare, e quello cinese, spesso anch’egli proveniente da un’impresa familiare. Si intendono più facilmente se devono fare accordi o joint ventures che tra cinesi e francesi o tra cinesi e tedeschi.

È più facile il rapporto personale tra l’imprenditore italiano e la controparte cinese, gli italiani riescono a calarsi meglio nella cultura locale, sono più flessibili, capiscono l’esigenza di conoscersi bene prima di firmare un contratto. 

Il problema è che le aziende italiane in Cina hanno investito poco. Un po’ per la lontananza, un po’ per una certa timorosità, un po’ per le dimensioni ridotte delle imprese in Italia, che hanno consigliato all’imprenditore tradizionale italiano una certa prudenza e pacchetti iniziali di investimento piccoli. Questo accade anche per altri mercati, non solo per la Cina. 

E tuttavia in Cina le dimensioni sono importanti, e le grandi aziende tedesche in questo hanno da insegnarci, hanno investito 7-8 volte in più di quelle italiane. Così quelle francesi, per non parlare di quelle americane, giapponesi, coreane. 

Le imprese italiane hanno investito soprattutto sotto forma di joint-venture con soci locali, raramente con società al 100% italiane e soprattutto hanno fatto poche acquisizioni, a differenza di quelle tedesche. Molte non accettano l’idea di dover spendere subito una grossa cifra per comprare un’azienda locale, e preferiscono fare piccoli passi.

Quindi in Cina i volumi contano, dicevamo più che da noi

I volumi contano, e poi vi è un altro aspetto. Anche le aziende italiane che hanno investito di più e fondato delle sedi hanno inviato in Cina un management che tuttavia non può fare scelte strategiche, facendo rimanere il controllo delle decisioni in mano all’imprenditore in Italia. E questo si è rivelato un difetto con la pandemia e l’interruzione dei collegamenti.

Nel 2020 comunque hanno investito molto di più le aziende straniere in Cina che le aziende cinesi all’estero. E ad avere investito però sono state soprattutto quelle grandi imprese che in Cina hanno magari 1000 dipendenti, con un management locale che ha il diritto di prendere decisioni, quelle che già avevano osato, che creato una struttura importante nel Paese. E sono poche quelle italiane ad avere agito in tal modo. Con le dovute eccezioni.

E invece sarebbe il momento di farlo, perché il mercato tira.

Grazie mille dottor Marazzi per il suo tempo

Grazie a voi


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