Tra le eccellenze di cui l’Italia può andare fiera nell’ambito delle imprese innovative probabilmente D-Orbit rappresenta oggi il punto di riferimento più importante, in particolare per chi si occupa di alta tecnologia e di deep tech.
Azienda leader in un settore dal futuro molto promettente, quello della space economy, si è affermata in breve tempo nel segmento della logistica spaziale, realizzando, per esempio, soluzioni per il rilascio di precisione dei satelliti, ma anche infrastrutture di cloud computing.
È una realtà in rapidissima espansione, e per questo abbiamo voluto conoscerla meglio, incontrando uno dei due co-founder e Chief Commercial Officer (CCO) Renato Panesi.
D-Orbit è stata fondata 11 anni fa da me e Luca Rossettini. Abbiamo entrambi una formazione ingegneristica cui ne è seguita una più orientata alla Business Administration negli Usa, nella Silicon Valley.
Questa esperienza ci ha trasmesso molto, ci ha mostrato come è possibile gestire una startup tramite capitale di rischio, e quando siamo tornati in Italia con il nostro business plan abbiamo proposto la nostra idea ai fondi di investimento seed di allora, che erano ancora pochi. È così che siamo partiti.
Nel tempo abbiamo sperimentato che quello che ci avevano insegnato in California era vero: il team conta probabilmente per l’80% e l’idea, che pur deve essere buona, molto meno. Quindi una risposta secca alla domanda sul come siamo riusciti a crescere, qual è la ricetta, è: avere la squadra migliore possibile.
Del resto, se oggi guardo il business plan che presentammo al primo fondo che credette in noi, più di 10 anni fa, mi viene da ridere, oggi io non investirei sulla base di quel documento. Vuol dire che hanno scommesso su di noi, sui founder, perché apparivamo sia preparati tecnicamente che tenaci e perché stavamo preparando un team forte, che è quello che ha consentito all’impresa di crescere e divenire quello che è ora.
La squadra si è man mano rimpinguata di persone all’altezza, oggi supera le 200 persone, e siamo in controtendenza rispetto al trend nazionale che vede una fuga di talenti all’estero. Infatti, abbiamo tante nazionalità che lavorano presso di noi, vuol dire che siamo attrattivi.
È una questione di stipendi? No, non perché siano più bassi della media nazionale, anzi, ma sono inferiori a quelli pagati in realtà simili in altri Paesi, eppure abbiamo colleghi olandesi, francesi, tedeschi, finlandesi, ecc. perché l’ambiente di lavoro è stimolante, la vision condivisa dal team
La vision, appunto, per noi deve essere chiara, con una mission che evolve nel tempo, man mano che si raggiungono i traguardi, con l’mministratore delegato e il management che tengono la barra del timone e tutta la squadra che condivide gli obiettivi.
Nei momenti peggiori, di crisi, si vede il risultato di questo atteggiamento. Per esempio, nel 2013, quando per motivi burocratici il bonifico di un investimento tardava ad arrivare in banca, non potevamo pagare fornitori e stipendi, e dovevamo di lì a poco lanciare il nostro primo device nello spazio. Se avessimo perso quel lancio avremmo sprecato denaro ma, soprattutto, un’opportunità che si sarebbe ripresentata solo dopo molto tempo.
Le persone del team, che non potevano venire stipendiate, hanno spontaneamente tirato fuori denaro di tasca loro per comprare i componenti che ci servivano per ultimare il lavoro, sono venute a lavorare nella settimana di Ferragosto e siamo riusciti a lanciare il nostro prodotto. Poi l’investimento è arrivato, e con esso gli stipendi e i giusti premi.
Questo per fare capire come la squadra sia per noi così importante.
Io personalmente credo sia una questione di sistema. L’Italia è un Paese di imprenditori, non ce lo deve insegnare nessuno come fare impresa. Il problema è scalare.
Penso alle tante aziende di eccellenza in molti settori che vengono acquisite da gruppi esteri. Succede perché prima non sono riuscite a scalare, perché evidentemente è più complicato nel nostro Paese l’accesso al capitale.
I fondi di Venture Capital, quando noi abbiamo cominciato, scarseggiavano; ora vi è stato un grande aumento, le cose stanno cambiando, ma siamo ancora indietro rispetto ad altre realtà. Anche le grandi corporate, per esempio nel mio settore, si occupano di Venture Capital, ma solo da poco in Italia, mentre all’estero lo fanno da tempo.
Io credo che sia relativamente semplice lanciare un’impresa a livello seed, di fondi che se ne occupano ormai ce ne sono a bizzeffe, è anche possibile consolidarla una volta cresciuta, perché anche il private equity è ormai cresciuto, ma manca quello che sta in mezzo. Ovvero il venture capital con investimenti tra i 20 e i 30 milioni, per esempio.
Non ci sono ancora abbastanza fondi che agiscono su questi tagli, e anche i meccanismi di investimento dovrebbero essere modernizzati.
Visto che il team è importante, deve essere motivato a rimanere e si deve essere capaci di attrarre talenti e trattenerli, le stock option, per esempio, sono un elemento fondamentale a questo scopo.
Non solo, gli investimenti tramite convertible bond sono arrivati tardi in Italia, noi siamo stati tra i primi nel nostro Paese a utilizzare strumenti finanziari partecipativi (SFP), mentre all’estero venivano usati da molto tempo.
C’è un po’ di ritardo da colmare.
Inoltre, noi abbiamo avuto la possibilità, avendo come clienti soggetti istituzionali come lo Stato, che sono considerati buoni pagatori, di farci scontare le fatture in banca. Questo è però molto più difficile per la grande maggioranza che opera sul mercato retail o B2B.
Anche il mondo delle banche, appunto, potrebbe fare uno sforzo maggiore, come è stato fatto nel 2020 durante la pandemia, quando il sistema del credito si è attivato
Sarà sicuramente fondamentale. Oggi non esisterebbe il settore privato in questo ambito se non ci fosse il pubblico. Quest’ultimo è quello che consente alle aziende di pagare lo sviluppo dei propri prodotti e di testarli in orbita.
L’accesso allo spazio, del resto, per uno Stato sovrano è strategico e quindi lo Stato avrà sempre una voce in capitolo.
Se si parla di giro d’affari ad essere predominante, però, sarà il privato, Ora l’Ucraina è connessa grazie a Starlink, un servizio fornito da un’azienda privata. Non so se arriverà prima su Marte la Nasa, ovvero gli Stati Uniti, o SpaceX,
Larga parte dei nostri clienti, non a caso, sono privati. Forniamo loro servizi di upstream, di infrastruttura, abilitiamo gli operatori satellitari in modo che possano erogare il loro servizio dalle orbite, che siano di telecomunicazione classici o di connettività, di osservazione della Terra nella gamma del visibile o in infrarosso.
Può esserlo quella finale, ma non necessariamente. Per esempio, non nel caso della connettività, mentre in quello dell’osservazione della Terra magari sì, potrebbe essere la protezione civile che vuole prevenire gli incendi o anche, per esempio, un’azienda di oil & gas che deve individuare nuovi giacimenti.
Sono due gli ingredienti fondamentali.
Il primo, per quanto possa sembrare retorico, è la resilienza. Lo abbiamo sperimentato agli inizi, quando abbiamo resistito davanti alle difficoltà incontrate nell’entrare in un settore così conservatore come l’aeronautica e lo spazio.
Il secondo è la capacità di dotarsi di professionalità adeguate nei momenti giusti. Quando si è piccoli tutti fanno un po’ di tutto, ma quando si cresce si devono adottare procedure, processi decisionali e operativi, funzioni al contorno della value chain.
Per esempio, nel deep tech al di fuori del nucleo costituito dal program manager, dalla squadra tecnica che sviluppa la soluzione, dal procurement che compra i componenti servono, quando ci si ingrandisce, anche il legal, la comunicazione, l’HR, il reparto finance. Quest’ultimo in particolare è fondamentale per raccogliere denaro e per gestire il cash flow.
Non si deve attendere troppo a dotarsi di queste funzioni, perché correggere una situazione incancrenita è più difficile quando ormai si è in 200-300 persone, magari dopo una crescita repentina, come quella accaduta a noi.
Grazie a voi