Le aziende italiane si sono sempre contraddistinte per un grande ricorso al debito rispetto ad altre fonti di finanziamento, in confronto alle altre imprese europee. Nel 2019 il rapporto tra debito e capitale netto era nel nostro Paese del 43,9%, decisamente maggiore del 36,8% francese, del 35% spagnolo e del 33,5% tedesco.
Tra l’altro classicamente una buona parte di tale indebitamento, circa due terzi, consiste in prestiti bancari e solo una minoranza in obbligazioni e prestiti di privati, che invece costituiscono la maggior parte delle fonti di debito nel caso dei nostri partner europei.
E’ un tema che si interseca con quello della sottocapitalizzazione. Il rapporto tra equity e capitale lordo secondo i dati della BCE è sceso solo al 40% medio nel momento più duro della Grande Recessione, nel 2011, per poi risalire verso il 50% negli anni della ripresa, ma rimanendo al di sotto dei livelli di gran parte degli anni 2000. Il punto è però che altrove, in Francia, Spagna, Paesi Bassi, nel frattempo si è arrivati al 60%.
Una ragione come si sa è la presenza preponderante in Italia delle piccole e medie imprese, che più delle grandi ricorrono alla leva finanziaria e fanno più fatica a recuperare capitale.
E tuttavia proprio dalle PMI viene una nota positiva. Secondo CERVED il rapporto tra debiti finanziari (escludendo quindi qui quelli commerciali) e capitale netto è diminuito nel corso degli anni. E non di poco. Era del 115,5% nel 2007, ovvero i debiti superavano mediamente il capitale proprio, e poi man mano nonostante il periodo di crisi è calato fino al 63,2% del 2018.
Questo perchè il debito finanziario nello stesso periodo è aumentato molto meno velocemente dell’equity, dell’11% in 11 anni contro il 63% del capitale netto.
Erano di meno, almeno nel periodo pre-Covid, le piccole e medie imprese in sofferenza, anche, bisogna dirlo, per una selezione un po’ darwiniana che ha favorito solo le aziende più resistenti.
Questo trend positivo può essere un grosso incentivo per liberarsi ulteriormente dai vincoli della leva finanziaria e perlomeno equilibrare le fonti di finanziamento, aprendosi alla convenienza di quelle alternative, come il venture capital.
L’abitudine di affidarsi al debito e in particolare al credito bancario ha reso le aziende italiane troppo dipendenti dagli alti e dai bassi (in particolare da questi, ultimamente) delle banche, e allo stesso tempo ha reso queste ultime, così esposte verso piccole aziende in crisi, più vulnerabili e fragili rispetto a quelle europee.
Finanziarsi tramite equity elimina buona parte di questi inconvenienti, soprattutto nel caso delle imprese più piccole.
Innanzitutto, questo è un tema strutturale in Italia, a parte quelle fasi di recessione in cui i tassi d’interesse crollano, nel nostro Paese sono normalmente più alti che all’estero, e il servizio del debito risulta più costoso.
Ma soprattutto nel caso in cui le revenue sono volatili e incerte, e più l’azienda è in una fase di crescita perchè giovane e piccola, e quindi anche di maggiore volatilità, meno risulterà conveniente assumere su di sè costi più o meno fissi, comunque sempre presenti, come quelli di un servizio del debito regolare. E’ il caso delle nostre startup PMI, appunto. Con l’apertura a investitori esterni assieme all’ingresso di capitali preziosi vi è anche la condivisione con questi di parte del rischio.
Non si tratta meramente di passare la “patata bollente ad altri”, ma può rappresentare un incentivo a essere più produttivi, se si deve dare conto della propria attività non a una banca che interagisce con migliaia di altre piccole imprese, ma con investitori certamente esigenti, ma anche attenti e spesso presenti, soprattutto se come sempre più capita possono portare anche competenze ad imprese nate dall’intraprendenza di giovani cui inevitabilmente possono mancare capacità manageriali a 360 gradi.
Vi è anche un altro aspetto da considerare, perlomeno dal lato del potenziale investitore, sottolineato più volte dal celebre Warren Buffett, nel lungo periodo contrariamente a quanto si è tenuti a pensare è l’equity a rendere maggiormente piuttosto che per esempio un’obbligazione. Celebre è la scommessa che lo ha visto prevalere su un fondo con cui ha confrontato l’andamento del S&P 500 tra il 2007 e il 2017 e quello di una serie di hedge fund, realizzando un guadagno nettamente superiore, nonostante la crisi intercorsa all’inizio del periodo. Del resto è stato calcolato che tra il 1926 e il 2020 in 3 casi su 4 prendendo un qualsiasi periodo di 5 anni le azioni hanno battuto i bond, e se ne consideriamo come Buffett uno di 10 anni si arriva all’83%.
Traslando queste considerazioni nel molto più modesto ma forse anche più avvincente mondo delle startup, delle piccole imprese innovative e delle PMI in generale, appare sempre più chiaro che se si fa la tara a un mercato ancora così acerbo, e vi è una strategia di diversificazione e quindi minimizzazione del rischio, dividere sapientemente gli investimenti in vari strumenti, tra cui includere l’equity, è più conveniente sia per l’investitore che per l’azienda e quindi l’intero sistema rispetto a un atteggiamento tradizionale di preferenza per poche obbligazioni, titoli di Stato e mattone.
Naturalmente la politica deve fare la sua parte, dopo anni di incentivi verso il debito tramite la deducibilità degli interessi. Da poco e in modo ancora troppo limitato si è accorta dell’esistenza e della convenienza di altre fonti di finanziamento, e c’è ancora molto da fare, ma questa è un’altra storia.