Normalmente coloro che si oppongono a una tassazione eccessiva motivano la propria posizione, in gran parte dei casi peraltro giusta, con l’effetto negativo sui consumi e sugli investimenti delle imprese che questa porterebbe. Tra gli altri argomenti vi è anche il disincentivo a lavorare per chi percepisce sussidi o è coniuge di un lavoratore (tipicamente è il caso di molte mogli) o ancora a incrementare le ore di lavoro, perché la tassazione si mangerebbe una parte non considerevole del guadagno aggiuntivo.
Vi è però un altro impatto che tasse eccessivamente alte hanno sull’economia: lo Stato si sostituisce di fatto al cittadino nelle scelte di consumo e di investimento privato. E questo è vero anche e soprattutto per quelle fasce che normalmente sono più attive in quest’ultimo, i più benestanti. Coloro che per esempio sono protagonisti degli investimenti in equity, che consentono la nascita e, tramite le capitalizzazioni successive, il rafforzamento di startup, piccole e medie imprese.
Diventa però più difficile quando del valore generato da un lavoratore il 54,1% viene incamerato dallo Stato. È questa la tassazione media totale, il cuneo fiscale, applicato a un lavoratore che guadagni il 67% in più dello stipendio mediano in Italia.
Si tratta della percentuale più alta al mondo dopo quella belga, che raggiunge il 58,6%. Dal 2015 superiamo anche la Francia, dove si arriva al 53,1%, e dove fino ad allora si pagava più che da noi. Non più. Siamo lontanissimi dai livelli della Spagna, il Paese tra tutti strutturalmente più simile a noi, dove si paga il 44%. E ancora più lontani dal Regno Unito, dove il cuneo fiscale in questo caso è del 37,1%, mentre scende al 34% negli USA, al 31,7% in Canada, al 26% in Corea del Sud, al 24,3% in Nuova Zelanda, al 26,9% in Svizzera.
Se consideriamo poi invece della tassazione media quella marginale, ovvero quella che insiste sull’incremento di reddito e non su tutto, sul contribuente italiano con le maggiori entrate arriva incombe un cuneo fiscale marginale appunto del 62,9% (in Germania è del 44%). Vuol dire che lo Stato incamera più di 6 euro dei 10 in più guadagnati da chi riesce per esempio ad ottenere un aumento, una promozione, un incarico più prestigioso, un posto di dirigente, proprio quei 10 in più che rappresentano (se il sistema funziona) una sorta di premio della propria competenza.
E non è un caso allora se quei Paesi con tasse inferiori alle nostre sono quelli in cui gli investimenti in venture capital in proporzione al PIL sono i più alti a livello mondiale, mediamente 10 volte superiori che in Italia.
Fatta la tara ai mille altri fattori che influiscono su questi numeri il punto è che una tassazione moderata, anche su chi ha redditi superiori alla media, implica una delega dallo Stato al cittadino per quanto riguarda la scelta di consumi e investimenti. A quest’ultimo rimangono risorse per formare risparmi e investirli in modo diversificato e consapevole, assumendo su di sé la responsabilità non solo dei propri capitali ma in un certo senso anche dell’economia del suo complesso, che dipende dalle sue scelte più di quanto non possa fare in quei Paesi in cui attraverso un‘imposizione fiscale che supera il 50% il destino del sistema economico risiede invece nelle mani dello Stato.
È una questione anche culturale, che emerge anche in altri ambiti come la filantropia, la responsabilità sociale, perfino la politica. In un Paese come l’Italia in cui ci si aspetta che lo Stato si occupi un po’ di tutto al posto dei cittadini, non a caso sono meno presenti che altrove le donazioni, le fondazioni che operano nel sociale, il sostegno privato ai partiti o alle associazioni non decolla, e non a caso ci si è dovuti inventare i vari 2, 5, 8 per mille, ritornando a rimettere nelle mani dello Stato funzioni che altrove sono del privato.
E non ci si può meravigliare se quindi neanche i più benestanti sentono la responsabilità e lo stimolo a sostenere un'impresa nascente, il tessuto economico della propria area o del settore di cui sono competenti, non ne vedono neanche l’opportunità investendo, acquisendo quote. L’idea diffusa, anche tra le classi dirigenti, persino tra gli imprenditori stessi, è che ci debba pensare lo Stato, o al limite le banche.
Il ministro Tommaso Padoa Schioppa diceva che la tassazione non rappresenta in realtà un prelievo, un depauperamento del contribuente, ma è un consumo come gli altri, solo che collettivo, per quei beni e servizi che si pensa sia meglio gestire e acquistare a livello comune.
Ed è senz’altro vero se pensiamo ai vantaggi che il sistema europeo ha per esempio nei confronti di quello americano, con alcuni servizi di base, quelli riguardanti salute e istruzione, che sono responsabilità totale o maggioritaria dello Stato.
Il punto è che per occuparsi di tali servizi fondamentali non dappertutto a quanto pare è necessario arrivare a livelli di tassazione dei redditi di questo livello. L’evidenza anzi mostra che si possono mantenere livelli di welfare ottimali con un decremento dell’imposizione fiscale. Nel 2000 il cuneo fiscale tedesco sui redditi maggiori era del 56,2%, il 5,1% maggiore di quello italiano. Quello svedese era del 55,7%. Nel 2019 erano scesi al 51%, al di sotto del livello del nostro Paese. Così la Finlandia, dove la riduzione è stata di circa il 5%.
Significa che evidentemente che vi è un deficit di efficacia ed efficienza nella gestione dei servizi pubblici. Che si ripercuote sul fatto che lo Stato non riesce realmente a sostituire il cittadino privato in quelle funzioni che non rientrano tra quelle primarie come istruzione e sanità, come per esempio gli investimenti e il sostegno delle imprese.
Vi sono ragioni politiche e culturali ancora prima che economiche per cui un Paese come l’Italia e altri dell’Europa continentali non stravolgeranno mai il proprio modello di Stato e intervento pubblico. Non assomiglieremo mai agli USA, alla Corea del Sud, al Cile, dove pensioni e sanità sono prevalentemente private. Ed è probabilmente meglio così.
Questo non vuol dire che non sia possibile anche partendo dalle caratteristiche del nostro sistema riuscire ad avere un mercato dei capitali più vivace, più proficuo, più utile a tutta l’economia.
Se lo Stato vuole sostituire il privato allora che lo faccia nel modo migliore, occupandosi attivamente anche di questo ambito
Gli esempi più virtuosi non mancano. Il governo tedesco ha varato FutureFund, che mira a investire 10 miliardi entro il 2030, stimolando altri 20 miliardi di investimenti privati. BpiFrance, a partecipazione pubblica, da anni è tra i fondi più importanti del Continente, soprattutto per le fasi di sviluppo intermedie e avanzate delle imprese innovative, ed è stato il primo nel terzo trimestre 2020 quanto a numero di round portati a termine nei confronti di aziende europee.
L’Unione Europea ha dato vita a VenturEU, che mira ad investire in fondi di fondi, proponendosi di assistere i fondi privati che aiutano le imprese.
Non sappiamo se potrà bastare a compensare i ritardi accumulati nel Vecchio Continente, e in particolare in Italia, rispetto agli USA. Una riforma fiscale, del resto preannunciata dal premier Draghi, rimane in ogni caso prioritaria.