Aumentare la spesa in ricerca e sviluppo è cosa buona di per sé, lo sanno tutti gli imprenditori e i governanti, anche quelli che alla fine non riescono a incrementarla, ma gli economisti ci dicono una cosa in più, che più R&D nelle imprese classiche porta anche a più nuovi imprenditori, e quindi a un numero maggiore di startup. La Columbia University, con recente paper della professoressa Tania Babina, lo dimostra.
L’esame del comportamento delle aziende americane porta all’evidenza che l’incremento del 100% degli investimenti in ricerca e sviluppo porta a un incremento dell’8,4% dell’uscita di lavoratori verso nuove avventure imprenditoriali. I dipendenti che se ne vanno per fondare proprie aziende sono mediamente quelli con salario più alto della media, del 50% circa, tecnici, informatici, lavoratori con alte skill, che del resto si trovano più facilmente proprio in quelle imprese che investono di più in ricerca.
Questo effetto tra l’altro è ancora maggiore nel caso in cui l’investimento sia stato accompagnato da un credito d’imposta pubblico. Questo anche perché il sussidio va a compensare gli effetti eventualmente negativi di un’innovazione, la perdita del dipendente più brillante che decide di andare per la propria strada.
E naturalmente la nascita di startup è più frequente se l’azienda originaria del nuovo imprenditore è high tech e ha dei brevetti. Inoltre se questa passa entra nel 10% delle aziende che più innovano l’incremento nella creazione di startup diventa del 12%
Tra l’altro queste hanno il 35% in più di probabilità di essere finanziate all’inizio con venture capital se nascono da founder che provengono da imprese in cui vi era stato investimento in ricerca e sviluppo. Queste startup hanno inoltre, secondo la stessa ricerca, la caratteristica di pagare salari più alti e di crescere più delle altre. E, contrariamente a quanto si può pensare lo fanno in un mercato diverso da quello originario dell’impresa da cui il founder proviene. In sostanza una soluzione tecnologica sviluppata nell’azienda più grande e applicata in una fascia di mercato che spesso inventata ex novo.
Non c’è quindi un contrasto tra le imprese tradizionali, magari multinazionali, e le startup, si tratta di una dicotomia che nei fatti non esiste, vi è anzi complementarietà a patto che vi sia un’iniezione di innovazione, che necessariamente però deve passare per una valorizzazione del capitale umano, non solo per un rinnovo della strumentazione tecnologica. Sono le competenze e il network costruito che rendono un dipendente un imprenditore di startup.
L’Italia non ha mai brillato dal punto di vista della spesa per ricerca e sviluppo. Nel 2018 e 2019 quella complessiva nel nostro Paese destinata a questa voce ammontava all’1,44% del PIL, contro il 2,19% medio UE, che veniva innalzato dal 3,15% raggiunto in Germania, il terzo Paese per importanza data alla ricerca, dopo Svezia e Austria.
A superare il livello medio europeo anche gli USA con il 2,82% e la Francia con il 2,12%. Il dato positivo per il nostro Paese è che il valore dell’R&D è cresciuto in 10 anni, nonostante siano stati di crisi e ripresa troppo timida. È aumentata del 0,22%, esattamente come nella UE, e più di quanto accaduto in Francia e USA, dove tale indicatore è rimasto fermo, mentre in Germania si è incrementato del 0,41%.
Certo, da parte di chi insegue ci si aspetterebbe uno sforzo maggiore rispetto a quello di coloro che sono già in cima alla classifica, e così non è stato. Ma certo possiamo festeggiare il segno più. Che probabilmente è stato dovuto anche agli incentivi varati da qualche anno. Quelli legati a industria 4.0, è stato calcolato, hanno fruttato, assieme alla riforma della giustizia e alle liberalizzazioni, un 3-6% di maggiore PIL cumulato nell’ultimo decennio. Senza avremmo veramente avuto crescita zero e saremmo arrivati ancora più prostrati alla crisi del 2020.
Le agevolazioni del governo italiano sono cambiate nel tempo, anche con l’ultima Legge di Stabilità, ma si sono soprattutto concentrate in crediti d'imposta. Per l’acquisto di beni strumentali (è l’ex superammortamento), valgono il 6% del totale, ora divenuto 10%. Sono del 40%, ora 50%, nel caso di acquisti di macchinari digitali 4.0 (ex iperammortamento), del 15%, ora 20% per la spesa in software 4.0. Questi, seppur naturalmente legati all’innovazione, sono però più che altro incentivi connessi agli investimenti.
Quelli che più direttamente impattano sulla ricerca e lo sviluppo sono altri, si tratta del 12%, che da pochissimo è divenuto 20%, delle spese appunto in R&D sostenute.
In questo l’Italia sembra finalmente avvicinarsi alle best practice di altri Paesi occidentali, e però vi sono delle lacune decisive. Sono posti, probabilmente per ragioni di budget, limiti che indicano una concezione ancora poco moderna. Sia per gli acquisti di macchinari, beni strumentali, ricerca e sviluppo vi è sempre un tetto, per esempio i costi ammissibili sono al massimo 2 milioni nel caso dei beni materiali, di un milione per quelli immateriali, di 2,5 milioni se parliamo di macchinari, che possono aumentare a 10 o 20, ma con una riduzione in questo caso dell’aliquota del credito d’imposta.
Nel caso della ricerca e sviluppo la soglia è di 3 milioni di costi. Cosa che non si riscontra per esempio nel RDEC (R&D expenditure credit), in vigore nel Regno Unito,dove il credito d’imposta del 13% è applicato sui costi complessivi, in modo tra l’altro anche più semplice dal punto di vista burocratico. Questo favorisce anche gli investimenti delle grandi imprese, delle multinazionali, non solo delle PMI, ovvero laddove già si concentra maggiormente l’attività di innovazione, creando quell’humus favorevole, come si è visto, alla nascita di startup da parte dei dipendenti.
I dipendenti appunto. Probabilmente è la spesa in R&D realizzata attraverso quella in capitale umano la più decisiva per la ricaduta nella nascita di nuove imprese innovative. Eppure anche in questo caso in Italia vi sono delle soglie. Solo il 30% delle spese in personale sono agevolabili. Nel Regno Unito non vi sono limiti, se non quello del 65% applicabile però solo a staff esterno, a contractors e consulenti, che nel caso italiano diventa del 20%.
Non è una coincidenza che il Regno Unito sia il Paese europeo con più unicorni, 77, contro il 32 della Germania, seconda, e il terzo al mondo per numero di startup, per StartupRanking.
Non sono infatti solo gli incentivi diretti all’utilizzo del risparmio in modo alternativo o gli investimenti in equity il carburante per la nascita di nuove imprese innovative. La numerosità e l’innovatività di queste come si vede passa anche per l’ecosistema che viene favorito all’interno del mercato tradizionale, e in questo ambito il settore pubblico è fondamentale.
È chiaro, possiamo dare tutta l’acqua che vogliamo, se il cavallo non beve, come si dice, c’è poco da fare. Se il sistema economico è debole, poco produttivo, aggiungere incentivi su incentivi ogni anno non basta, è il classico caso in cui possiamo affermare che è necessario ma non sufficiente. E tuttavia è necessario, assieme ad altre misure che renda più competitivo il sistema Paese nel campo fiscale, dell’istruzione, dell’efficienza della Pubblica Amministrazione e della giustizia.
Che abbiamo iniziato a capire l’importanza di tali misure è positivo, i margini di miglioramento ci sono e forse per questi ci aiuterà il Recovery Fund.