Riccardo Ranalli è uno dei maggiori esperti di crisi d’impresa in Italia, Coordinatore della Commissione CNDCEC sulla riforma della crisi d’impresa, docente in diverse Scuole di Alta Formazione, è stato ed è sindaco ed amministratore in primari gruppi bancari, compagnie di assicurazioni, imprese.
Ha partecipato a frequenti audizioni davanti al Governo e al Parlamento, e nella primavera 2020 è stato membro della Commissione Colao, la task force che ha prodotto varie proposte di riforma, alcune delle quali recepite nei successivi decreti economici del Governo.
Abbiamo voluto incontrarlo per decifrare meglio il particolare momento in cui ci troviamo.
Oggi sono state immesse nell’economia reale dosi massicce di liquidità e nel contempo le imprese sono state messe sotto narcosi con una serie di provvedimenti emergenziali. Nei prossimi mesi se nulla cambierà, e non verranno modificati alcuni provvedimenti, si risveglieranno dall’anestesia, e in quel momento un certo numero di imprese non riusciranno a reggersi sulle proprie gambe da sole. Il vero momento critico sarà quello della prima parte del prossimo anno, quando le aziende prenderanno consapevolezza del fatto che occorrano interventi per assicurare la continuità aziendale.
E’ stata immessa finanza con dosi da cavallo. Il cavallo si è messo a bere per la sete del momento, per colmare i gap finanziari aperti con la pandemia, ma in realtà, come ha detto Mario Draghi a Rimini parlando di debito buono e debito cattivo, la destinazione virtuosa della finanza emergenziale e di quella del Recovery Fund è quella per effettuare gli investimenti.
Si tratta del debito buono, quello che serve per accrescere la produttività, le competenze, gli skill, mentre il debito cattivo è quello che serve per colmare le perdite. Le imprese in tempo di Covid hanno sino ad ora contratto tendenzialmente debito cattivo, ora si dovrà accedere a quello quello buono, almeno lo speriamo. Speriamo soprattutto che le imprese “bevano”, perché la finanza che è stata data poteva essere sì utilizzata per ripianare perdite ma anche per successivi investimenti, ma non è stata questa la destinazione, se non in rare situazioni.
Il problema vero è che noi non torneremo al punto di partenza, questo si sa. E in questo alcuni segmenti saranno avvantaggiati, e si ritroveranno naturalmente proiettati in una crescita oltre quel punto senza necessità di intervento, molte altre rimarranno al di sotto perchè nel frattempo i consumatori ed i clienti avranno cambiato i propri bisogni.
Sì, sono i cambiamenti della domanda e dei processi produttivi che comporteranno a questo punto l’adeguamento dell’offerta e principalmente la modifica del business model.
Le faccio un esempio banalissimo. Abbiamo letto tutti di Zara che ha chiuso 1200 punti vendita, e ha creato anche un’esperienza di realtà aumentata self service integrata all’e-commerce. Questo è un cambiamento radicale, ne risentiranno i centri commerciali. Vi è poi lo smart working, e la transizione green, per Egeo della quale coloro che sono nella filiera dei motori a combustione, in particolare coloro che sono coinvolti in progettazione e realizzazione di impianti oggi cominciano a risentire di un calo strutturale della domanda. E devono adattarsi per non morire.
Incide moltissimo il nanismo delle nostre imprese. Se sono una piccola impresa difficilmente ho e riesco ad acquisire gli skill necessari. Per questo nella commissione Colao si è parlato di reskilling. Per venirne fuori il processo è uno solo, quello aggregativo, che in Italia sembra una blasfemia, non si è mai riuscito a realizzare, ma che forse in questo momento, per le imprese che si trovano davanti a un muro potrà essere accettato come il minore dei mali.
In tutto questo la startup innovativa è invece aciclica rispetto al trend in atto. Perchè nella maggior parte dei casi opera in filoni nuovi che sono già adeguati rispetto alla domanda che sta cambiando.
Poi c’è un altro aspetto, quello al quale dò maggiore rilevanza: usciremo da questa fase con maggiore debito. E il debito va servito: l’impresa deve disporre dei flussi necessari a pagare gli interessi ed a rimborsare il capitale. Fino a oggi si è sempre parlato del patrimonio netto in termini più nominalistici, è quello, per intenderci, che rileva quando si perde il capitale sociale. Non è più sufficiente. È l’adeguatezza finanziaria, la capacità di sostenere il debito con i flussi, l’unico vero indice di adeguatezza patrimoniale. Se la prima manca ci si deve procurare mezzi propri. Ben vengano allora gli incentivi al riguardo come quelli dell’articolo 43 del decreto Sviluppo sui marchi storici o dell’articolo 26 del decreto Rilancio, per cui si possono ottenere equity e strumenti finanziari di Invitalia con una leva su nuovi aumenti di capitale sociale a pagamento. Sono interventi importanti, anche se non sono sufficienti.
Intanto si devono portare a sistema questi strumenti, magari con incentivi rafforzati nei settori che devono intraprendere trasformazioni storiche più profonde, ma principalmente si deve favorire il processo aggregativo. Le aggregazione tra imprese devono trovare dei premi ulteriori. Era stata suggerita dalla Colao una sorta di super ACE, con detassazioni in relazione al premio del rischio dell’equity. Se si è in una situazione di difficoltà e vi è un cambiamento di management e di strategia, il rischio è maggiore, ed è giusto detassare il capitale che si investe nell’impresa tenendo conto di un premio per il rischio più elevato rispetto al normale.
Qui il crowdfunding diventa importantissimo, perchè se sono una startup o un’impresa innovativa ho un premio per il rischio maggiore rispetto a quello di una impresa non innovativa. Non posso ricorrere al debito, potrei non ripagarlo. Rimane l’equity, che però va premiato, e il crowdfunding, pur incentivato dovrebbe esserlo in modo più importante.
Inoltre si dovrebbe aggiungere qualche tassello in relazione agli elementi più deboli che caratterizzano le startup. Uno riguarda la governance. Si deve aiutare le imprese a crescere da questo punto di vista perché se ricevono equity devono cominciare seguire certe regole, come un reporting periodico, una governance finanziaria e amministrativa adeguata. Un altro è l’organizzazione, che deve essere adeguata nel momento in l’impresa cresce e riceve capitali, tanto più quanto è maggiore il suo successo, perché c’è il pericolo che l’idea buona, il prodotto o il servizio che interessa sul mercato, ma non si riescano a rispettare gli ordini i volumi e i tempi di consegna, lasciando passare un treno che non ripasserà più
Si deve intervenire su questi due aspetti delicati. Poi c’è il tema delle competenze. La soluzione potrebbe essere quella dei voucher impiegati per l’internazionalizzazione come incentivo all’acquisizione di queste. Occorre però anche un bacino di competenze, penso a coloro che per esempio come manager hanno già affrontato quelle trasformazioni necessarie in un’impresa magari all’estero, e che potrebbero essere utili a più di un’impresa.
Si tratta di un segmento di risparmio più evoluto, certo, e credo infatti che a questo proposito sarebbe conveniente che le piattaforme di equity crowdfunding venissero osservate da soggetti istituzionali, come fondi, compagnie di assicurazioni, ecc, ma questo è realizzabile se ci sono regole di governance adeguate nelle singole imprese. Si potrebbe fare qualcosa a livello normativo in tal senso, sempre con un criterio di proporzionalità per non caricare su una startup oneri di governance eccessivi. Questo aprirebbe un mercato diverso, con multipli magari più contenuti, ma per una startup non è una questione di multipli, ma di raccolta.
La costituzione da parte di fondi di un veicolo di investimento in una startup dà più sicurezza al singolo investitore, inoltre vi è un indubbio vantaggio nell’avere soci di riferimento soci competenti ed esterni rispetto al management, nel momento del cambiamento di pelle, quando dall’ideazione e della prima implementazione si deve passare alla crescita e ai volumi
Grazie a lei