Ci sono pochi dubbi, almeno tra chi prende le decisioni all’interno dei governi e del mondo imprenditoriali che la crescita di un Paese, e di conseguenza i redditi, i salari, l’occupazione siano determinati dalla produttività del sistema, da quanto valore un’ora di lavoro o un euro di capitale riescono a generare.
Ed è opinione comune che a incrementare la produttività, cronicamente scarsa nel nostro Paese, contribuisca in modo decisivo la ricerca che viene fatta.
Il capitolo della ricerca e sviluppo è però un tasto dolente nel nostro Paese. A tale scopo viene ancora dedicata una quota troppo piccola delle nostre risorse
Basti pensare che in Israele la spesa in R&D corrisponde al 4,9% del PIL, mentre in Italia si scende all’1,4%. Davanti al nostro Paese vi sono Corea del Sud, con il 4,5%, Taiwan, con il 3,5%, il Giappone, con il 3,3% e per quanto riguarda i Paesi europei la Germania, dove viene speso il 3,1%.
Non deve essere un caso se Israele negli ultimi anni Israele è stata definita la “start-up nation” ed è diventata celebre la sua “Silicon Wadi”, che fa il verso alla più celebre Silicon Valley californiana, un’area intorno a Tel Aviv in cui si concentrano parchi tecnologici e aziende del settore Hi-tech, israeliane o controllate dalla maggiori multinazionali del settore, che sono cresciute in numero e valore in particolare nell’ambito bio-medicale o della sicurezza informatica.
Nel corso degli anni vi sia stato un aumento anche in Italia della spesa in ricerca e sviluppo. In gran parte degli anni ‘90 non arrivava all’1% del PIL, ha superato l’1,1% solo nel 2007 per accelerare, se possiamo usare questo verbo, negli anni successivi.
È certamente positivo. Tuttavia non basta, rimaniamo indietro, soprattutto per quanto riguarda il contributo dato dal settore pubblico. Perché il dato probabilmente più rilevante, più di quello sulla spesa in sé, e anche più del trend che lo interessa, è quello sull’ambito in cui viene effettuata tale spesa. Dove fa più ricerca
L’Istat conferma come dal 2012 in poi, negli anni della ripresa economica prima della pandemia, siano stati spesi sempre più risorse, fino ad arrivare a quasi 26 miliardi di euro nel 2019, con un incremento di 5,4 miliardi rispetto ai 20,5 del 2009.
E in particolare a essere cresciuta è stata quella parte della ricerca che corrisponde allo sviluppo sperimentale, la parte più concreta, differente per esempio dalla ricerca di base, o da quella applicata.
Questo perché a guidare l’incremento del settore R&D sono state soprattutto le aziende private, quasi monopoliste di tale tipo di ricerca. Dei 5,4 miliardi in più spesi in 7 anni ben 5,1 sono responsabilità delle imprese. È un dato rilevante se pensiamo che nel 2012 dei 20,5 miliardi immessi nel settore solo 11,1 venivano dall’ambito aziendale.
Il settore pubblico, università escluse, faceva ricerca solo per 3 miliardi e 40 milioni, divenuti appena 3 miliardi e 284 milioni sette anni dopo. Un progresso simile, di poco più di 200 milioni, è quello compiuto dalla spesa in ambito universitario.
Naturalmente può accadere che gli investimenti in R&D compiuti in un’impresa siano in realtà finanziati dal settore pubblico. Ma in Italia succede meno che negli anni scorsi e meno che in altri Paesi.
Nel 2018, l’ultimo anno di cui vi sono informazioni dettagliate, dei quasi 16 miliardi di spesa in ricerca in ambito aziendale solo 783 milioni provenivano da finanziamenti statali, la stessa cifra del 2012, nonostante nel frattempo complessivamente gli investimenti in R&D, in imprese e non, fossero aumentati. Circa l’84% di tutta l’innovazione effettuata a livello aziendale era frutto dello sforzo finanziario delle aziende stesse.
Nel frattempo è al contrario aumentato il ruolo del privato nella ricerca effettuata dal pubblico, in particolare in ambito universitario. Le risorse versate dalle imprese alle università per fare innovazione si sono più che quintuplicate nel tempo, passando da 66 a 347 milioni. Certo, è poco rispetto ai 2,5 miliardi che le aziende tedesche versano nella ricerca universitaria, ma perlomeno vi è stata una compensazione del taglio dei finanziamenti pubblici che è avvenuto purtroppo nel frattempo.
Nel 2012 erano 162 mila gli addetti alla ricerca e allo sviluppo nelle imprese, in sei anni sono raddoppiati arrivando a 326 mila. Nello stesso periodo in ambito pubblico sono passate da 49 a 54 mila, in quello universitario sono addirittura diminuiti, da 145 a 127 mila.
Il sistema delle imprese quindi nonostante fossero anni non facili, con una ripresa comunque fragile, è riuscito a far progredire l’innovazione in Italia quasi sostituendosi allo Stato.
È spontaneo chiedersi come mai così spesso nel discorso pubblico quando si parla di ricerca e sviluppo si faccia riferimento quasi solo alla spesa statale, come se fossero solo i governi a poterla sostenere, in particolari governi indebitati e in difficoltà finanziaria come il nostro è da sempre e soprattutto in questo frangente, con la crisi legata alla pandemia che ha colpito i conti pubblici come il resto dell’economia.
Forse dovremmo cominciare a pensare che come è accaduto con l’ultima crisi, quella finanziaria, anche dopo questa sarà l’ancora maggiore sete di innovazione delle imprese quella potrà fare della ricerca il centro della ripresa. E probabilmente sarà più produttivo progettare sostegni fiscali e incentivi all’R&D che le aziende già spontaneamente hanno tutta l’intenzione di fare, lo hanno dimostrato, che nuova spesa pubblica.