E’ un segnale di speranza non solo per il piccolo (per ora) mondo delle startup italiane, ma per l’intero Paese. Nel secondo trimestre del 2020, quello che va dal 1 aprile al 30 giugno, il loro numero, nonostante la pandemia di Covid19 che sconvolgeva e bloccava il Paese, è cresciuto del 2,6%, ovvero di 290 unità, raggiungendo la cifra di 11.496.
Parallelamente anche il capitale sociale sottoscritto si è incrementato, del 2%, arrivando a 656,3 milioni di euro complessivamente
Le startup, potendo definirsi tali solo a determinate e stringenti condizioni, prima fra tutte l’innovatività, rappresentano una quota ridotta ma in aumento delle nuove aziende italiane. Dell 366 mila circa costituite negli ultimi 5 anni sono il 3,1%.
Si tratta di un segnale di vitalità del tessuto economico italiano, indica che non vi è solo voglia di resistere alla crisi, l’ennesima e la più grave degli ultimi decenni, ma di reagire.
Come appare evidente dagli altri dati sul mondo delle startup italiane.
Su 100 startup italiane il 35,6%, ovvero 4.093, sono state registrate nella divisione produzione di software, consulenza informatica, ecc, nel comparto Servizi alle imprese. Un altro 13,78% ricade nell’ambito della ricerca scientifica e sviluppo. Sono percentuali che indicano la vocazione all’innovazione di questo mondo, ma ancora più eloquente è il fatto che viceversa di tutte le nuove imprese del settore ricerca scientifica e sviluppo ben il 68,9% siano startup. Queste costituiscono anche il 39,44% delle nuove aziende di software e consulenza informatica negli ultimi 10 anni. Numeri molto più alti della media che, ricordiamolo, è del 3,1%, e che indicano che non solo le startup si concentrano in questi campi, dove l’innovazione è decisiva, ma li trainano, e sono indispensabili perchè esistano in un Paese in cui la ricerca non è mai stata tra le priorità della governance pubblica.
E’ inevitabile, come ovunque nel mondo i servizi avanzati anche in Italia tendono a concentrarsi nello stesso luogo. Si tratta di sfruttare, non essendoci molti problemi di costi fissi, spazi, capannoni, un ecosistema, fatto di università, incubatori, centri di ricerca, competenze specifiche che si trovano dove già vi sono altre startup e aziende degli stessi settori. E’ per questo che si crea un circolo virtuoso che vede la nascita di nuove imprese dove già ve ne sono altre analoghe.
E in Italia questo luogo è Milano. La sua provincia, ora Città Metropolitana, conta il 6% della popolazione italiana, ma concentra il 19,61% delle startup italiane. Seconda, a distanza con il 10,25%, la provincia di Roma, pur molto più popolosa.
In generale in Lombardia vi è il 27,27% delle nuove imprese innovative. Difficile dire se sia la vitalità di Milano negli ultimi anni ad avere portato a questi risultati, o viceversa la presenza di queste imprese ha favorito lo sviluppo del capoluogo lombardo anche nei periodi di crisi. Probabilmente entrambi gli elementi si alimentano a vicenda.
Spiccano però anche le piccole Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige, dove è massima la percentuale di startup tra le nuove imprese, rispettivamente il 5,17% e il 5,37%. Un segnale importante in un’epoca in cui il timore di una concentrazione della popolazione, del lavoro, del benessere, solo in grandi metropoli, con conseguente spopolamento della provincia, è tema di discussione in Occidente.
Sono interessanti le differenze a livello societario tra le startup e le altre nuove imprese costituite negli ultimi anni. Secondo il report del ministero dello Sviluppo il numero medio di soci delle prime è di 4,7, contro il 2,08 delle seconde.
Alla luce del fatto che la mediana è invece di 2 in entrambi i casi, ovvero metà delle aziende ha 1 o due soci e metà di più, questo significa che vi è una significativa minoranza di startup che presenta un alto numero di soci, segno di una partecipazione diffusa, ottenuta magari tramite venture capital e equity crowdfunding, come sempre più spesso avviene, e di una apertura al contributo di chi non fa parte della ristretta cerchia dei fondatori, e che magari oltre al capitale può portare competenze.
Sono il 48,15% le nuove imprese innovative in utile, in base ai dati di bilancio del 2018. Si tratta di un risultato pregevole. Come si sa passano spesso diversi anni prima che si raggiunga un break even point, e anche aziende senza margini positivi riescono ad attirare investimenti, a maggior ragione le altre.
Ma il dato più importante è quello riguardante l’evoluzione della proporzione di startup in utile. Che è in aumento. Erano il 43,37% a fine 2016, il 44,95% a fine 2017, e poi il balzo del 2018. Si restringe, scendendo sotto il 20%, il gap con le altre aziende, “classiche”, tra cui quelle in utile sono naturalmente di più, ma non più così tanto.
Le startup italiane assumono quindi un nuovo ruolo in questa fase di crisi e ripresa, quello di contribuire a guidare la ripartenza almeno in alcuni settori, ancora troppo piccoli in Italia, ma proprio per questo decisivi per il futuro, come l’ITC e la ricerca. Sono anche il luogo, più flessibile e agile, in cui competenze ed energie provenienti da realtà in crisi possono ricominciare. In attesa dei capitali tanto agognati.