Da sempre in campo economico una delle principali diatribe tra i fautori delle diverse correnti di pensiero riguarda la primazia tra domanda e offerta, ovvero se sia l’una o l’altra a generare e poi guidare la crescita.
Se siano i consumi dei percettori di reddito, in primis i lavoratori, oppure la bravura e l’intraprendenza di chi crea i servizi e i prodotti che questi acquistano.
Verrebbe spontaneo pensare, in parte a ragione, che si tratta del vecchio quesito su cosa sia nato prima, se l’uovo o la gallina. In fondo è facile comprendere che se la qualità e la competitività dei prodotti è decisiva, allo stesso modo deve esserci un mercato fatto di masse con l’adeguato potere d’acquisto che sia in grado di comprare.
E tuttavia un driver è emerso nel tempo come indispensabile ed irrinunciabile. Si tratta della tecnologia. Il progresso tecnologico è quello che in fondo ha accompagnato il passaggio da un tipo di società quasi statica, da tutti i punti di vista, sociale, economico, demografico, tipica del medioevo e dell’età moderna, a quella in continua e tumultuosa trasformazione succeduta alla Rivoluzione Industriale.
Come allora, anche oggi, seppur in modo meno spettacolare, è sempre questo che traina la crescita dell’economia e del benessere.
Questo elemento, quello dell’adozione di sempre più avanzate tecnologie, è centrale sia che lo decliniamo dal lato macroeconomico, quindi parlando di produttività, sia da quello micro.
In quest’ultimo caso è eloquente il recentissimo studio di Bain che evidenzia come siano state le imprese che hanno puntato tutto sul tech quelle che hanno incrementato di più il proprio valore di mercato. I primi 20 “gainer” del settore IT tra il 2015 e il 2020 lo hanno accresciuto di 6.500 miliardi di dollari. In testa tra questi naturalmente Apple, Microsoft, e Alphabet (Google).
Gli aumenti dei top 20 degli altri settori sono stati decisamente più ridotti. In quello dei consumi voluttuari è stato di 4.100 miliardi, che scendono a 1.800 se si considerano invece i consumi essenziali, mentre nell’ambito delle comunicazioni è di 2.300 miliardi di dollari la crescita del valore di mercato delle imprese migliori.
Il punto fondamentale però è che la tecnologia non è alla base solo del successo delle aziende dell’IT, come è ovvio, ma anche di quelle che appartengono agli altri comparti. In quelli dei beni non di prima necessità e della comunicazione ai primi posti vi sono imprese come Amazon e Alibaba da un lato e Tencent e Facebook dall’altro.
Si può dire, come fa Bain, che la tecnologia non rappresenta un settore, ma proprio una forza trasversale che li influenza tutti, generando crescita.
E a trarne beneficio non sono anche le aziende più tradizionali.
Tra le modalità in cui l’innovazione tecnologica trasmette valore anche in settori in apparenza distanti da quelli in cui dominano Apple, Amazon, Google, Facebook ecc vi sono il cloud e le piattaforme digitali. Queste hanno consentito a un ambito per definizione maturo come l’automotive di creare nuovi servizi ad alto valore aggiunto.
General Motors, ha connesso in cloud parte dei propri veicoli alla rete così da fornire informazioni utili agli utenti (in caso di emergenza, per esempio) e dati riguardanti gli spostamenti ai soggetti che nell’epoca dei big data possono usare tali numeri per perfezionare la propria offerta.
John Deere, leader dei trattori agricoli, d’altro lato ha adottato una piattaforma digitale che integra i dati che terze parti raccolgono sulle colture, le condizioni del suolo e molto altro usando sensori impiantati sui mezzi di questo brand, e aiuta gli agricoltori a rendere più efficiente il proprio lavoro.
Un altro modo in cui la tecnologia diffonde valore è tramite il suo impatto nel mercato delle risorse umane. Sempre Bain mostra come negli Usa, che solitamente anticipano le tendenze globali, non è cresciuta solo la richiesta di figure direttamente legate al mondo IT, come software engineer, del 69% tra 2015 e 2019, o Data scientist, del 443%, ma anche quella di Customer success manager o Product manager, che richiedono competenze e studi non tecnici. L’aumento della domanda di tali professionisti è salita del 669% e 173% nello stesso lasso di tempo. Vuol dire che con l’innovazione si riesce a dare valore a quelle esperienze sviluppate in ambiti maturi in cui non è più possibile crescere e che però si ritrovano a essere di nuovo utili e spendibili grazie ai margini che la tecnologia rende possibili. Margini che consentono di approfondire per esempio la relazione con il cliente più di quanto sia fattibile o efficiente fare in imprese più tradizionali
La crescita veicolata dalla tecnologia, che prende la forma di incremento del valore di mercato delle aziende IT e di quelle che il tech utilizzano, si esplica molto spesso tramite fusioni e acquisizioni che generano timori tra chi teme significhino alla lunga un aumento dei prezzi e una diminuzione della concorrenza. Non è però quello che si è verificato negli ultimi anni.
Come sempre il report di Bain mostra attraverso vari esempi, gran parte delle più importanti operazioni di M&A che sono avvenute nel nuovo millennio in questo ambito ha allargato piuttosto che ristretto l’offerta, è il caso dell’acquisto di Youtube da parte di Google nel 2006, che ha stimolato la creazione del mercato dello streaming, oggi estremamente variegato ed economico. Così come quella di Whole Food da parte di Amazon, che ha consentito la diminuzione dei prezzi del delivery nell’ambito della spesa, producendo un aumento della domanda che ha alimentato anche una crescita dell’offerta, già prima del Covid.
A volte l'acquisizione consente di rinunciare alla profittabilità di un servizio, mantenendolo gratuito o bassissimo costo e/o incrementando la sua qualità, così da rendere la tecnologia che utilizza quella leader del mercato. L’esempio, in questo caso è quello probabilmente più noto anche in Italia, ed è quello di Whatsapp, comprato a suo tempo da Facebook. Nel tempo alla messaggistica si sono aggiunte altre funzioni, e questo sistema di comunicare è diventato prevalente, provocando l’arrivo di altri provider (Messenger, Wechat, ecc).
Dal punto di vista finanziario è stato dimostrato poi che quei fondi di venture capital che vendono più del 20% del proprio portafoglio di quote di startup, essenzialmente alle grandi aziende tech, investono poi il 40% in più di quelle che invece si limitano a vendere solo il 10% o meno dello stesso portafoglio. E investono naturalmente in altre e più numerose startup.
In sostanza la tecnologia ricopre quel ruolo redistributivo che è necessario in un’economia avanzata, perché i benefici dell’innovazione non accrescano solo i redditi di pochi, ovvero degli innovatori, ma anche quelli delle aziende dei settori lontani dall’IT, dei consumatori (attraverso la riduzione dei prezzi), dei lavoratori che dall’IT non provengono.
Viste queste ricadute è facile immaginare che l’impatto anche a livello macro della tecnologia sia importantissima. Questa incrementa la produttività di un’economia, che alla lunga è il vero driver della crescita del Pil, e con esso del benessere di una nazione.
E non è una coincidenza che i Paesi in cui più la Total Factor Productivity (TFP) è cresciuta dal 2000 in poi, come gli Usa, appunto, e la Germania, dove è aumentata del 6-10% in circa 20 anni, abbiano visto il Pil salire in modo più deciso di quei luoghi come l’Italia in cui invece la TFP è addirittura scesa, e non poco, di una dozzina di punti.
Dunque sembra vero, è l’offerta che probabilmente ha la primazia sulla domanda. Ma c’è un ma. Può non bastare. Così come può non bastare la “mano invisibile” della tecnologia sull’economia. Gli effetti positivi che abbiamo visto si sono potuti manifestare negli ultimi anni in un ambito, quello americano e in generale occidentale, che aveva determinate caratteristiche economico-politico-sociali. Questo non può essere dimenticato.
Si tratta di un modello che favorisce la concorrenza in modo attivo, che allo stesso tempo consente una reale liberalizzazione dei mercati. Senza quella “red tape” rappresentata spesso sia da regolamentazioni eccessive che da interessi corporativi che da una corruzione diffusa che rende i mercati altamente inefficienti e si innestano come trombi nel flusso sanguigno dei capitali. I quali dovrebbero scorrere dai settori dove si crea valore, tramite l’innovazione, agli altri.
E parte di questo modello è anche una società dei consumi avanzata, che si è raggiunta e mantenuta anche grazie all’intervento pubblico, che tra le sue funzioni ha avuto anche quella di tenere alta la domanda di quella quota di consumatori a redditi bassi. La domanda, che a livello aggregato diventa ampia in mercati aperti, è indispensabile dopo che l’innovazione tecnologica è stata prodotta, perché consente di la creazione di quella massa critica di consumi necessaria per la concorrenza e la riduzione dei prezzi, che a loro volta stimolano l’innovazione stessa.
L’Italia di questo processo di avanzamento tecnologico ha beneficiato in modo parziale, perché ha ricevuto solo i vantaggi passivi, se così si può dire, quelli in termini di costi inferiori, per imprese e cittadini, e di servizi innovativi. Ma non è stata protagonista della creazione di nuove soluzioni, non vi sono molte aziende italiane tra quelle che hanno potuto incrementare in modo così massiccio il proprio valore di mercato grazie al tech. Insomma, dal versante italiano manca proprio quella dimensione dell’offerta che è quindi di primaria importanza nell’economia attuale.
Senza un cambiamento drastico, che si spera potrà cominciare a venire con Next Generation Eu, rischiamo di essere solo il corrispettivo a livello di nazione di un lavoratore precario e a basso reddito che risparmia qualche euro potendo fare gratis videochiamate che prima pagava, ma che non riesce a usare queste nuove tecnologie per cambiare la propria condizione e il proprio reddito.