Neutralità climatica, riduzione della pressione sull’ambiente, minor dipendenza da altri Paesi per quanto riguarda l’approvvigionamento di materie prime. Per centrare questi obiettivi l’Unione Europea ha avviato la transizione verso un modello di sviluppo basato su sostenibilità e circolarità, in alternativa all’attuale modello economico “lineare”. L’Italia può sfruttare alcuni punti di forza della propria economia, ma per vincere questa sfida le imprese devono ridisegnare i processi di produzione.
La cosiddetta economia circolare punta sul ridurre, riusare e riciclare per sottrarre i prodotti alle discariche e limitare al massimo gli sprechi. Si tratta di un modello di produzione e consumo che implica condivisione, prestito, riutilizzo, riparazione, ricondizionamento e riciclo dei materiali. In questo modo si estende il ciclo di vita dei prodotti, contribuendo a ridurre i rifiuti al minimo. Una volta che il prodotto ha terminato la sua funzione, i materiali di cui è composto vengono infatti reintrodotti, laddove possibile, nel ciclo economico. Così si possono continuamente riutilizzare all’interno del ciclo produttivo generando ulteriore valore.
Un’economia - secondo la definizione della Ellen MacArthur Foundation - “pensata per potersi rigenerare da sola”, che si pone in alternativa al tradizionale modello economico lineare, fondato invece sul tipico schema “estrarre, produrre, utilizzare e gettare”. Nell’attuale modello lineare, oltre a dipendere dalla disponibilità di grandi quantità di materiali, risorse ed energia, i processi di estrazione e utilizzo delle materie prime producono un grande impatto sull’ambiente e sul clima e aumentano il consumo di energia e le emissioni di anidride carbonica (CO2). Un uso più razionale delle materie prime può contribuire a diminuire le emissioni di CO2 e l’impronta ambientale. Secondo il Circularity Gap Report 2021 del Circle Economy – che misura la circolarità dell’economia mondiale – raddoppiando l’attuale tasso di circolarità dall’8,6% (dato 2019) al 17%, si potrebbero ridurre i consumi dei materiali dalle attuali 100 a 79 gigatonnellate e tagliare le emissioni globali di gas serra del 39% l’anno.
Lo scorso febbraio, il Parlamento europeo ha dato il via libera al “Piano d’azione per l’economia circolare” presentato nel marzo 2020 dalla Commissione UE e che rappresenta un pilastro del Green Deal, il programma per la crescita sostenibile dell’Europa. Il piano costituisce il quadro globale per le azioni che mirano a velocizzare la transizione verso un “modello di crescita rigenerativo” e intende preparare l’economia europea al futuro verde, rafforzandone la competitività e dissociando la crescita economica dall’utilizzo delle risorse, ponendosi in linea con l’obiettivo dell’UE di neutralità climatica entro il 2050 previsto dal Green Deal.
Come ha ribadito il Parlamento europeo l’economia circolare deve essere l’elemento centrale della nuova strategia industriale dell’UE e dei piani nazionali di ripresa e di resilienza degli Stati membri. L’obiettivo è quello di creare le condizioni per sfruttare pienamente il potenziale dell’economia circolare, sia da parte delle imprese che dei consumatori; le prime mediante la trasformazione dei modi di produzione e di lavorazione, i secondi attraverso scelte sostenibili per sé stessi e a favore dell’ambiente. Il cosiddetto approccio “cradle to cradle” dell’economia circolare offre infatti l’opportunità di trasformare i rifiuti di un’impresa in risorse utili alla produzione per altre imprese.
Con il nuovo piano l’UE intende agire contemporaneamente su due fronti: da un lato, ridurre la produzione di rifiuti e favorire la trasformazione dei materiali in risorse secondarie di alta qualità; dall’altro, agire a monte, per impedire che prodotti non sostenibili entrino nel mercato europeo.
L’azione a monte riguarda la progettazione dei prodotti, che dovranno essere pensati per durare, essere facilmente riutilizzabili, riparabili e riciclabili, e incorporare il più possibile materiale riciclato. L’azione a valle riguarda invece i consumatori, che avranno accesso a informazioni affidabili sulla durata e la riparabilità dei prodotti, così che possano compiere scelte più consapevoli e sostenibili e beneficiare di un vero e proprio “diritto alla riparazione“. Inoltre le misure, limitando i prodotti monouso, si occuperanno dell’obsolescenza prematura e vieteranno la distruzione di beni durevoli invenduti.
La Commissione Europea avrà il compito di proporre un atto legislativo sulla strategia per i prodotti sostenibili volta a garantire che i prodotti immessi sul mercato dell’UE siano progettati per durare più a lungo, siano più facili da riutilizzare, riparare e riciclare, e contengano il più possibile materiali riciclati anziché materie prime primarie, e dovrà estendere l’ambito di applicazione della direttiva sulla progettazione ecocompatibile - il cosiddetto ecodesign - anche a prodotti non legati all’energia, affinché l’economia dell’Unione europea sia sempre più sostenibile e punti in maniera credibile a eliminare le sostanze tossiche, ad allungare la vita dei prodotti, a valorizzare le materie prime seconde e a sperimentare nuovi modelli di business.
In questa direzione, indicata dalla UE, l’Italia ha compiuto alcuni importanti passi avanti, come evidenziato dal Rapporto nazionale sull’economia circolare in Italia realizzato dal CEN-Circular Economy Network. Nel settembre 2020 sono stati approvati i decreti legislativi di recepimento delle direttive in materia di rifiuti volte a prevenire la produzione di rifiuti, incrementare il recupero di materie prime seconde, portare il riciclo dei rifiuti urbani ad almeno il 65% entro il 2035, ridurre a meno del 10% entro la stessa data lo smaltimento in discarica. Entro il marzo 2022 dovrà inoltre essere approvato il Programma nazionale di gestione dei rifiuti. E il nuovo Piano Transizione 4.0 prevede specifiche agevolazioni per gli investimenti delle imprese finalizzati all’economia circolare. A queste misure si aggiungeranno le azioni contenute nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza presentato a fine aprile dal Governo italiano.
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Scopri il crowdfunding →Stando ai dati diffusi dalla Fondazione Symbola, l’Italia vanta a livello europeo la più alta percentuale di riciclo sulla totalità dei rifiuti. Con il 79% di rifiuti totali avviati a riciclo, presenta infatti un'incidenza più che doppia rispetto alla media europea e ben superiore rispetto a tutti gli altri grandi Paesi europei: la Francia è al 55%, il Regno Unito al 49%, la Germania al 43% e la Spagna al 37%.
L'Italia, inoltre, è il primo Paese in Europa sull'obbligatorietà dei criteri ambientali minimi. La sostituzione di materia seconda nell'economia italiana comporta un risparmio annuale pari a 23 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio e a 63 milioni di tonnellate di CO2. Siamo primi tra i grandi Paesi Ue anche per riduzione dei rifiuti: 43,2 tonnellate per milione di euro prodotto. La Spagna ne produce 54,7, la Gran Bretagna 63,7, la Germania 67,4, la Francia 77,4 (media Ue 89,1).
Inoltre per ogni chilogrammo di risorsa consumata il nostro Paese genera, a parità di potere d'acquisto, 3,5 euro di Pil, poco meno della Gran Bretagna (3,7, che ha però un'economia trainata dalla finanza), meglio della media Ue (2,2) e di Spagna (3,1), Francia (2,7) e Germania (2,3).
L’alta percentuale di riciclo è decisiva dal punto di vista della sostenibilità ambientale, non solo per la riduzione delle quantità di rifiuti da smaltire e per la riduzione dei consumi di materie prime, ma anche perché – attraverso l’impiego di materia già trasformata – determina consistenti risparmi nel consumo di energia e conseguentemente nelle emissioni climalteranti. Tra le economie del G20, secondo i dati dell’International Energy Agency (IEA), nel 2018 l’Italia non solo era il terzo Paese per minori emissioni totali di CO2, ma anche il terzo Paese per minore quantitativo di CO2 emessa in rapporto al PIL (dopo Regno Unito e Francia). I dati dell’indice CO2/PIL sono misurati in Kg per dollari di PIL costanti a cambi 2015. Inoltre, rispetto al 2008, nel 2018 l’Italia risultava anche il secondo Paese per riduzione percentuale delle emissioni totali di CO2 (dopo il Regno Unito) e il quarto per riduzione del rapporto tra CO2 e PIL (dietro Regno Unito, Cina e Stati Uniti, con questi due ultimi Paesi, però, che partivano da valori molto alti).
Tuttavia, come sottolinea il Circular Economy Report redatto dall'Energy & Strategy Group della School of Management del Politecnico di Milano, ridurre ed efficientare il consumo di risorse va ben oltre la pur cruciale gestione dei rifiuti e delle emissioni inquinanti. Secondo gli autori del ricerca “In Italia la vera economia circolare è ancora di là da venire”: il tasso di circolarità è fermo al 17,7% e, sebbene un obiettivo di circolarità al 100% sia fisicamente impossibile da conseguire, è evidente come lo spazio per migliorare sia ancora enorme. La gestione sostenibile dei rifiuti che produciamo, attraverso più efficienti forme di recupero di materia, di energia o di smaltimento, è e rimarrà un elemento centrale dell’economia circolare, sul quale resta ancora molto da migliorare. Ma è il design del prodotto che è da ripensare, per ridurre il prelievo di materie prime e rendere i prodotti – una volta usati – più riciclabili. La circolarità e la sostenibilità devono essere integrate in tutte le fasi della catena del valore: dalla progettazione alla produzione, fino al consumatore.
Sotto questo profilo le parole chiave dell’economia circolare - afferma Davide Chiaroni, vicedirettore dell’E&S Group e curatore dell’indagine - sono tre: risorse, intese come componenti del prodotto, che hanno un ciclo di vita più lungo e un valore intrinseco recuperabile; re-disegn, perché le imprese sono chiamate a ridisegnare i processi di produzione e i prodotti affinchè siano modulari e facilmente assemblabili, realizzati con materiali riusabili e riciclabili; proprietà, perché se nell’economia lineare il prodotto passa totalmente al cliente, nell’economia circolare la proprietà del prodotto deve restare al produttore, mentre il cliente ne paga soltanto l’utilizzo attraverso meccanismi di pay per use.