Forbes l’ha collocata tra i 10 più promettenti manager under 35 nel settore dei “Public Affairs”, e proprio Head of Public Affairs di Glovo Elisa Serafini è stata fino a poche settimane fa, ma in precedenza aveva ricoperto il ruolo di marketing manager per Uber, così come altre posizioni manageriali in aziende e startup.
Si è anche occupata di politica nella propria città, Genova, come assessore al Marketing Territoriale, Cultura e Politiche per i Giovani.
Abbiamo voluto incontrarla per chiederle sia come vede l’evoluzione dei mercati che per la propria attività professionale conosce meglio, sia cosa pensa dell’attuale congiuntura politico-economica
Quando Uber Pop è stata lanciato in Italia, nell’agosto del 2014, io ero marketing manager per Genova, ed ha avuto un successo clamoroso. Genova era la città in cui aveva il maggior tasso di crescita d’Europa, ma anche in altre realtà come Torino andava molto bene.
Poi nel maggio-giugno 2015 l’Autorità di Regolazione dei Trasporti ha stabilito che il servizio non rispondeva alla normativa in vigore, che prevedeva per il trasporto di persone una serie di requisiti che per sua natura Uber Pop non poteva soddisfare, rappresentando esso una sorta di democratizzazione del settore: tutti, o quasi, potevano trasportare tutti in sicurezza e trasparenza. Agivamo in un vuoto normativo, in un territorio di frontiera.
L’innovazione, in particolare nel nostro Paese, incontra sempre resistenze, sia per questioni corporative, sia per ignoranza, ovvero mancata conoscenza dei benefici che produce.
C’è una responsabilità dello Stato, ma io vedo anche una responsabilità delle aziende. Soprattutto quelle del mondo tech spesso ignorano le istituzioni, di fatto sfidandole. Ma è una sfida che in Italia può solo essere persa.
Con le istituzioni si deve parlare.
Certo, non posso parlare per conto delle società che li gestiscono, ma in generale posso dire che vi è un maggior vantaggio nel dialogare con le istituzioni e con i soggetti che hanno poteri regolamentari, come appunto l’Autorità di Regolamentazione dei Trasporti, o il Garante per la Privacy.
A volte le società hanno scelto di non farlo, e magari in un Paese come gli Stati Uniti può funzionare, ma in uno come l’Italia non è una strategia conveniente. Perché poi la regolamentazione diventa cento volte più severa, e rischia di compromettere l’innovazione che si cerca di introdurre.
Sono invece a favore oltre che di un dialogo con istituzioni e politica anche alla redazione di nuove normative insieme alla politica, che circoscrivano i confini delle nuove attività che nascono, perché alcuni confini ci devono essere.
No, è destinato a crescere, però tutto il settore deve a mio parere accettare il fatto che in Italia esistono delle consuetudini di contrattazione collettiva, e che per questa ragione fenomeni come quelli della gig economy e appunto del delivery devono necessariamente inserirsi in un processo di dialogo con le parti sociali.
Non posso dirlo. Io dico che dovrebbero. È l’unica strada. Ce lo dicono le istituzioni europee che stanno approfondendo il tema della gig economy e anche i consumatori. Si devono trovare soluzioni che non compromettano la capacità innovativa delle aziende, ma che rispettino la consuetudine e la cultura della nostra democrazia, che prevede un ruolo di ascolto delle associazioni di categoria e dei sindacati.
I sindacati non sono necessariamente contrari a questo mondo, però, spesso sono stati esclusi. Quello che io ho fatto nel mio ruolo in Glovo è stato aprire un dialogo, anche se non è sempre facile. Per questo ho chiesto ad Assodelivery di aprire un tavolo con Cgil Cisl, Uil sui diritti dei rider, di cui si parlava da tempo ma non era mai stato avviato, e ho voluto fortemente che Glovo fosse iscritta a ConfCommercio per iniziare un percorso di maggiore dialogo con gli enti di rappresentanza sindacale e istituzionale.
Vero, e si tratta, come nel caso dei driver di Uber, di opportunità di lavoro temporanee, che permettono di avere entrate economiche con alcune garanzie di sicurezza, e che però molto raramente diventeranno un lavoro per la vita. Proprio per le caratteristiche stesse del lavoro, che si svolge all’aperto e ha caratteristiche di stagionalità, e magari si fa mentre si attende un altro impiego.
Si dovrebbe spingere per avere più soldi in busta paga, qualunque siano i contratti, e anzi soprattutto se sono precari, e modificare l’articolo 18 anche per i contratti pubblici e delle società partecipate, come si è fatto per quelli privati, perché non trovo giusto che ci siano tutele differenziate.
E va benissimo avere contratti a progetto o collaborazioni a partite Iva se ci sono meno costi del lavoro e appunto salari maggiori, e dei sistemi di ammortizzatori sociali che aiutino il lavoratore a ricollocarsi, che funzionino davvero e vadano a pagare lui e non l’impresa.
Io non sono attaccata al posto fisso, ho lasciato posizioni a tempo indeterminato, aperto la partita Iva, e c’è tanta gente come me, soprattutto le nuove generazioni. Ma si deve fare in modo che le persone guadagnino.
Si deve ridurre la tassazione sul lavoro e spostare il carico fiscale su altro. Come i patrimoni, o le eredità. Non si capisce perché un lascito di un milione di euro è tassato pochissimo e una RAL di un dirigente lo è quasi al 50%.
E poi si deve tagliare la spesa. Ce n'è molta improduttiva. Cosa che implica una riorganizzazione dello Stato, che è una cosa molto lunga.
È un mix di entrambe le cose. Spesso, specie a livello locale, la spesa pubblica è uno strumento per l’acquisto del consenso. I finanziamenti alla tale azienda società o associazione servono per mantenere il potere nel breve periodo.
In tanti politici hanno questo approccio e in generale c’è un livello molto basso di classe politica locale e nazionale.
E poi vi sono molti persone assolutamente competenti, con valori e qualità, adattissime a governare una città o anche un Paese, ma non sono incentivate a fare politica. Perché la politica è un problema per la società civile. Se devo fare il sindaco di un piccolo paese, devo lasciare il mio lavoro, ma gli stipendi per i primi cittadini di queste realtà sono molto bassi, e allora meglio non candidarmi neanche.
Poi per esempio i consigli e le commissioni consiliari nei comuni si tengono alle 9 del mattino o alle 2 del pomeriggio, e chi lavora è impossibilitato a prendervi parte. In altri Paesi sono nel weekend o la sera.
Nel 2015 ho lasciato il tempo indeterminato e aperto la partita Iva per lavorare in smart working, e ho dovuto farlo perchè l’azienda non aveva accettato che lavorassi da remoto.
Ora qualcosa del genere è impensabile, ormai. Questo, il cambiamento culturale rappresentato dallo smart working e dal lavoro in cloud, rimarrà. Peccato che non stia rimanendo nella Pubblica Amministrazione.
La mia esperienza come assessore mi ha mostrato come i dipendenti pubblici, se valutati per ciò che producono, e non per le ore che fanno in ufficio, sono incentivati a imparare nuove tecnologie per fare smart working, che è quindi uno strumento per insegnare la tecnologia. Drive, Dropbox, Wetransfer, che noi diamo per scontati, per una persona di 60 anni che lavora in Comune sono cose nuove, che, una volta apprese, si rivelano utili per tutto il lavoro della PA.
È anche una questione generazionale. Non fa parte della cultura di quelle più giovani telefonare per ordinare cibo o andare fisicamente in una banca, perché si usa una app. Anche se ci saranno delle nicchie di mercato che non useranno la tecnologia in modo così massiccio. Nonostante la tecnologia ci rende più produttivi e trasparenti. Per questo andrebbe incentivata.
Se lo Stato è democratico di pericoli non ne vedo. Se non lo è naturalmente sì. La tecnologia come molti altri strumenti non è positiva o negativa in sé. Dipende dall’uso che se ne fa. Alcuni Paesi la usano per reprimere i dissidenti. E verso questi va fatta moral suasion affinché i diritti umani vengano rispettati e perché tale rispetto sia una condizione per commerciare.
Grazie a voi.