Giuseppe Donagemma (Innogest e Satispay): volontà e creatività non bastano, ci vogliono le competenze

Gianni Balduzzi 13/11/2020

Giuseppe Donagemma è il presidente del CDA di Innogest, il maggior player nel mondo del Venture Capital in Italia focalizzato in investimenti in aziende nelle fasi di seed e in early stage. Da più di sette anni inoltre è presidente dell’Advisory Board di Satispay, una delle startup digitali di maggior successo nel nostro Paese.

Per questo abbiamo voluto incontrarlo per cercare di decifrare con lui il momento attuale e i cambiamenti in atto.

Buongiorno dottor Donagemma, grazie per averci ricevuto, quali sono le tendenze più evidenti di questo periodo? Lei le vede probabilmente più di altri. Cosa sta cambiando?

Se parliamo principalmente di startup è chiaro che quelle più avvantaggiate in questo periodo sono quelle che lavorano nel settore digitale e trasformativo, quelle che già prima erano pronte a realizzare modelli di business alternativi rispetto a quelli tradizionali. È chiaro che con il Covid hanno un vantaggio competitivo importante perchè queste caratteristiche consentono loro di continuare a lavorare e proseguire la trasformazione del proprio business.

Al contrario come accade anche alle aziende più grandi sono in crisi le startup che seguono un modello più tradizionale, ad esempio nel turismo o nella ristorazione intesa in modo classico. Quindi non vedo una grande differenza tra startup e impresa tradizionale da questo punto di vista.

Vi è più che altro un’accelerazione dei trend pre-esistenti? 

Esatto, e quello che però è importante sottolineare è che le startup hanno avuto una capacità di sopravvivenza che non ci aspettavamo. Molte sono state capaci di cambiare, essendo molto più agili, molto più veloci. E del resto la maggior parte sono focalizzate su settori come per esempio i pagamenti digitali che in questo periodo non risentono molto dei danni della crisi. Sono comunque quasi tutte nei servizi avanzati, è difficile trovare una startup manifatturiera.

E poi i giovani sono più propensi a cambiare velocemente idea, direzione, si adattano, 

E il fatto che nelle startup vi siano decisamente più giovani che in altre imprese contribuisce

Certamente. L’unico problema che penso emergerà nei prossimi mesi con il prosieguo dell’emergenza è la disponibilità di finanza. Perché naturalmente adesso i fondi di venture capital rimangono focalizzati sul proprio portfolio e nel finanziare le aziende che vanno bene e che hanno mostrato resilienza durante questo periodo. Tutte le altre avranno difficoltà.

Parlando invece di lei, ho visto che per un lungo tratto della sua carriera è stato manager di multinazionali, ma a un certo punto ha deciso di focalizzarsi sulle startup, tra cui Satispay. È una cosa rara. Perché lo ha fatto? Vede in queste startup un futuro più promettente? Anche in Italia?

A me piace fare sempre qualcosa di diverso, ormai sapevo fare il manager, l’ho fatto con un certo successo e mi sono detto “Ora cosa si può fare di nuovo per divertirsi, per imparare, per svilupparsi professionalmente?”. Mi è sempre piaciuta la tecnologia, mi sono sempre piaciute le sfide, mi piace costruire. Le startup nel mondo della tecnologia in senso largo sono il luogo migliore per farlo. Sono molto agili, flessibili.

Al contrario a volte nel mondo corporate vedo che quando le dimensioni aumentano subentra una certa inefficienza, si spende più tempo a guardarsi internamente che esternamente, verso il cliente o l’innovazione. Mentre nelle startup c’è sempre molta energia, voglia di fare, di cambiare.

E in particolare in quelle italiane, che magari hanno cominciato dopo a svilupparsi?

La sfida ulteriore delle startup italiane è di fare partire un ecosistema adatto. Perchè è vero che il venture capital per esse è presente da un po’ di anni, Innogest è stata tra le prime a partire in questo campo, forse la prima in Italia, ma nonostante questo non si è ancora formato un vero e proprio ecosistema, si sta formando ma rispetto alla Francia, all’Inghilterra, alla Germania, siamo indietro, per non parlare degli Stati Uniti che sono un altro mondo. 

Quindi questa è la sfida, riuscire ad aiutare i giovani in Italia a creare aziende e renderle di successo

Che pregi invece pensa che abbiano le startup italiane?

Sicuramente i pregi classici italiani, creatività, attenzione alle necessità dei clienti e degli utenti finali, un certo livello di competenza, che pure spesso manca in generale, soprattutto a livello tecnologico, ma quella che si trova per esempio nei founder, è rilevante: sono persone veramente in gamba mediamente, focalizzate, che hanno voglia di emergere. 

Il problema è che si dovrebbero moltiplicare questi esempi virtuosi per mille, diecimila, ventimila, questa è la sfida.

C’è qualche settore in cui le startup italiane si stanno specializzando in particolare?

Sicuramente l’agrifood in generale, e del resto l’Italia è sempre stata riconosciuta leader in questo campo, e poi l’elettromedicale. Vi sono altissime potenzialità nel settore del turismo, che in Italia è forte ma frammentato. Così come nell’ambito dell’industria 4.0. Siamo sempre stati leader nell’elettromeccanico, e portare il digitale in questo settore ci consentirebbe di continuare a esserlo.

L’Italia era già un Paese di piccole e medie imprese, in realtà, ma quali sono le differenze tra pmi e startup?

La differenza sta nel mondo che è cambiato. Io vengo dal Veneto, un territorio pieno di piccole e medie imprese, e che è sempre stato un modello di successo. Modello però ora non replicabile nel mondo delle startup perché il ragionamento della piccola impresa del passato era “Faccio questo, lo faccio molto bene, lo faccio molte volte e lo rivendo”, il modello di business era confinato a quel prodotto e a quella soluzione, ma oggi il confronto e la competizione sono con il mondo, non è più con il vicino di casa o di capannone, e per affrontare questa competizione si deve avere una forte apertura mentale, competenze avanzate. 

Si sono allargati i confini, diciamo

Esatto, e soprattutto non è più sufficiente un po’ di buona volontà e di creatività, si deve avere competenze. Come si sa uno dei nostri problemi in Italia è che abbiamo pochi laureati rispetto alla media europea, e soprattutto sono pochi nelle materie che più sono necessarie nel mondo delle startup, in quelle tecnologiche. Per quello a livello di sistema le cose importanti da fare sarebbero innanzitutto spingere i giovani a studiare, e poi a studiare quel che serve. Il che non vuol dire eliminare le altre materie, ma avere un bilanciamento

Quindi decisive sono le competenze, ma anche, come dicevamo, i capitali. E questo è il vostro core business. Lei pensa che in Italia ci sia un eccesso di ricorso al debito invece che al venture capital? E cosa dovrebbe fare il governo per aiutare a colmare questo gap?

Per le startup in realtà il credito non è disponibile, se parliamo delle aziende italiane in generale invece è effettivamente un problema endemico, molti imprenditori si taglierebbero un braccio invece di rilasciare un pezzettino di equity, per questo si fa debito. 

C’è scetticismo verso l’investitore che vuole entrare nel capitale dell’azienda, forse bisognerebbe avvicinarsi di più al modo di pensare dell’imprenditore, ci vorrebbe un modo di fare private equity diverso.

E come si potrebbe fare? C’è anche un problema di poca propensione del risparmiatore medio nell’affidarsi a forme di risparmio alternativo

Io prenderei i modelli applicati in Inghilterra e in Francia, basati su una defiscalizzazione per privati e imprese e sulla semplificazione delle procedure. Questo ha avuto negli ultimi 10 anni un grande impatto, soprattutto in Francia. Di risparmi in Italia ce ne sono, si deve togliere la serratura consentendo alle persone di investire traendone un vantaggio che superi quello di mettere tutto in titoli come spesso si fa oggi. Con incentivi all’ottenimento di una buona rendita si può rischiare un po’ di più.

In Italia vi sono molti squilibri, Milano conta più di ogni altra area nel mondo delle startup, secondo lei vi sono anche altre città o regioni che stanno emergendo o si andrà sempre più verso una concentrazione  di tutto nel capoluogo lombardo?

È un po’ dappertutto così, in Inghilterra ci sono due o tre poli di aggregazione, in Francia idem, negli Stati Uniti domina la Silicon Valley e solo ora hanno cominciato ad emergere Boston e New York. Secondo me il panorama non cambierà in Italia.

Quello che potrebbe aiutare sarà la presenza dei poli universitari, che sono almeno al Nord più spalmati che permetteranno a nicchie di eccellenza di crescere.

Io sarei però contrario a fare forzature, a voler cercare di distribuire lo sviluppo delle startup per il territorio in modo artificiale, sprecando i pochi capitali che ci sono a disposizione.

Grazie mille dottore Donagemma

Grazie a voi


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