C’è chi li chiama shock, chi “cigni neri”. Si tratta di quegli eventi che hanno la capacità di cambiare in modo brusco e improvviso la congiuntura economica e di rendere obsolete le stime anche di poche settimane prima.
Hanno la caratteristica di essere imprevisti e di essere causati da fattori esterni, esterni al Paese in cui esplicano i propri effetti e quasi sempre anche al settore economico.
Così era stato per l’11 settembre 2001, e poi per la pandemia di Covid nel 2020. A brevissima distanza da quest’ultimo evento, il più dirompente dal 1945, siamo stati esposti a un altro shock, quello seguito all’aggressione russa all’Ucraina.
Esattamente come nel caso del Covid le conseguenze sull’economia, più che dal fatto in sé, provengono dalla reazione che i governi hanno dovuto mettere in atto per rispondere alla nuova emergenza. Da un lato le restrizioni, i lockdown, le zone rosse, dall’altro le sanzioni, il progressivo blocco del commercio con un Paese, la Russia, ormai diventato inaffidabile e pericoloso.
Il Centro Studi di Confindustria si è cimentato, come altre istituzioni e organismi, a stimare l’impatto del conflitto in Ucraina sul Pil e sui principali indicatori che rappresentano l’andamento dell’economia.
La previsione di via dell’Astronomia è che il prodotto interno lordo italiano crescerà solo dell’1,9% nel 2022, meno della metà del 4% immaginato lo scorso autunno. Si tratta di una prospettiva simile allo scenario mediano di Banca d’Italia.
L’ipotesi è che la guerra si concluda o comunque abbia una forte riduzione di intensità quest’estate, e che di conseguenza si scendano i prezzi dell’energia, pur rimanendo al di sopra dei livelli del 2021.
Sono questi, infatti, a determinare il brusco calo della crescita, molto più della diminuzione delle esportazioni verso la Russia, che pesano per l’1,5% del totale delle vendite all’estero delle imprese italiane.
Confindustria stima che l’incremento medio del 52,9% dei costi del petrolio e del gas in marzo abbia contribuito a portare dal 4,6% del 2018-19 all’8,2% attuale l’incidenza del prezzo dell’energia sui costi di produzione. Questo significa che ogni mese la bolletta energetica italiana, se i numeri rimanessero questi, aumenterebbero di 5,7 miliardi, con un impatto che diventa massimo nelle imprese metallurgiche e, a seguire, in quelle che producono cemento, vetro, ceramica, ecc.
Questo colpisce il nostro settore produttivo doppiamente.
Da un lato perché questo è costituito soprattutto da aziende che operano nel mercato B2B, e che stanno cercando di incorporare tali aumenti senza riversarli sui prezzi finali, per non perdere competitività, lasciando però che vadano a erodere i margini.
Dall’altro perché le nostre esportazioni dipendono molto dalla vendita di macchinari o prodotti in metallo, nonché di veicoli e della relativa componentistica. Nel totale parliamo del 42% dell’export, che per la maggior parte ha come destinazione l’Unione Europea, ovvero altri Paesi, la Germania in primis, che stanno soffrendo come noi una compressione della domanda a causa di questa fiammata inflazionistica concentrata nel comparto energia
La domanda, appunto. I consumi sono il principale motore del Pil, e una forte inflazione inevitabilmente erode il potere di acquisto, soprattutto delle fasce più deboli, quelle che hanno una propensione marginale ai consumi più alta.
Non è un caso che l’indicatore sulla fiducia dei cittadini secondo l’Istat sia scesa ancora più di quella delle imprese, passando dai 112,4 di febbraio (ponendo i valori del 2010 uguali a 100) a 100,8 a marzo, con una riduzione che era stata così veloce solo in occasione dell’arrivo del Covid, nella primavera del 2020. Nello specifico la fiducia verso il futuro, ovvero sull’andamento dell’occupazione e dei redditi nei prossimi mesi, ha subito un crollo, scendendo in un solo mese da 116,5 a 93,5.
Da queste considerazioni e da questi dati nasce la previsione di Confindustria di un aumento dei consumi delle famiglie solo dell’1,7% nel 2022, contro il +5,2% del 2021, e di un incremento dell’occupazione totale (in termini di ore lavorate) dell’1,5%. In quest’ultimo caso il contrasto con i numeri del 2021 è ancora più stridente. L’anno scorso era cresciuto di ben il 7,6%.
Per il 2023 è previsto un rimbalzo tale per cui la domanda privata riuscirà ad aumentare del 2,3%, addirittura più del Pil, che è previsto salire solo dell’1,6%, a causa del rallentamento degli investimenti. Tuttavia se appare piuttosto velleitario formulare stime anche solo per l’estate del 2022, a maggior ragione è utopistico pensare che quelle per l’anno prossimo possano avere una grande validità scientifica.
È quindi piuttosto difficile anche immaginare quale possa essere l’impatto di questo rallentamento generale dell’economia e, soprattutto, dell’incertezza sugli investimenti.
Si tratta di un mondo che nel 2021 ha vissuto un’importante espansione, come confermano i dati di Aifi, con l’immissione nel mercato di 14 miliardi e 699 milioni di euro, quasi 5 in più del precedente record del 2018 (9 miliardi e 788 milioni). Di questi 6 miliardi e 441 milioni sono stati investiti in Private Equity, all’incirca come nei due anni precedenti al Covid, mentre 587 milioni in Venture Capital, più di quanto fosse mai stato fatto in precedenza.
Il resto, la maggioranza, è stata costituita da capitali, spesso pubblici, versati per progetti infrastrutturali.
Se su questi ultimi possiamo presumere che l’effetto del rallentamento dell’economia possa essere limitato, sugli altri investimenti c’è comprensibile incertezza.
Finora gli unici dati su un possibile impatto vengono da un altro ambito, quello delle M&A, Mergers & Acquisitions. Secondo Kpmg nel primo trimestre 2022 le operazioni di questo tipo sono state 239, il 20% in meno rispetto alle 298 dello stesso periodo del 2021. In termini di controvalore tra gennaio e marzo si è arrivati a 17 miliardi di euro, contro i 30,2 degli stessi mesi dell’anno scorso, quando però nel conto complessivo era compresa la maxi operazione di Stellantis, da 19,8 miliardi.
L’esperienza della fase pandemica ci insegna che il mondo dei capitali di investimento in realtà può reagire in modo anticiclico agli shock, e che, anzi, in un momento di incertezza diversificare “lanciandosi” anche su target diversi, come startup promettenti, è una strategia vista con sempre maggior favore.
Sarà così anche questa volta? A favore di questa prospettiva gioca sicuramente la tipologia dei settori in cui tali startup operano, dal Fintech al medicale al Cleantech, passando per le energie alternative. Si tratta di ambiti che o risentono meno della crisi o che, anzi, rappresentano una via d’uscita alla stessa.