La transizione climatica è prepotentemente entrata nel dibattito pubblico a livello mondiale nell’ultimo decennio, sia per l’evidenza di un continuo riscaldamento delle temperature mondiali, sia per la mobilitazione di milioni di persone, soprattutto giovani, guidate dai vari movimenti per il clima come Fridays for Future.
Non è un caso che tra le voci principali di Next Generation Eu, il programma di investimenti europeo da 750 miliardi che dovrebbe guidare la ripresa economica dopo il Covid la transizione climatica sia tra i capitoli principali assieme alla digitalizzazione.
Non manca chi si oppone a dare la priorità al tema ambientale, e non si tratta solo di chi nega per esempio l’esistenza del riscaldamento globale o la sua natura antropica, ma anche di chi lamenta l’eccessivo peso delle spese dedicate alla transizione climatica e il costo delle regolamentazioni anti-inquinamento e dello stop a progetti ritenuti dannosi per l’ambiente, si pensi all’abbandono del nucleare o alle polemiche in USA sugli oleodotti in Alaska.
Questo scontro avviene anche perché finora si è quasi sempre pensato a investimenti, costi o perdite economiche in cui fosse lo Stato protagonista, a spese sostenute dal settore pubblico, con risorse prese dai bilanci dello Stato, ad imprese costrette a mettere l’ambiente solo nelle righe dei costi. Ma non è così
Se ne parla meno ma il Climate Tech è uno dei settori emergenti che stanno attirando sempre più investimenti nel mondo delle startup in tutto il mondo.
E del resto si tratta di un mondo vasto e trasversale: comprende tutte le tecnologie che puntano alla decarbonizzazione e al raggiungimento dell’obiettivo di zero emissioni nette nel 2050. E che possono essere applicate in svariati settori, da quello dell'energia, ovviamente, a quello dell’industria pesante, della mobilità, dell’agricoltura, del food.
Si tratta di startup che riescono, con l’utilizzo prevalentemente di fondi privati, a ottenere quei risultati che in tanti pensano possano essere raggiunti solo con l’utilizzo di fondi pubblici. E a farlo creando reddito e occupazione, dimostrando che la transizione climatica può essere la leva per la crescita economica, e non solo maggiore spesa pubblica.
Tra il 2013 e il 2019 infatti secondo PriceWaterhouse & Cooper i fondi di venture capital che questo segmento ha attirato sono cresciuti di ben il 3.750%, fino a raggiungere il 6% di tutti gli investimenti annuali in venture capital nell’anno prima del Covid. A livello annuale l’incremento medio è stato dell’84%, decisamente più alto di quello complessivo del 18%. Basti pensare che la crescita è stata tripla di quella che ha interessato un settore pur importantissimo come l’intelligenza artificiale.
In 7 anni sono stati 59,5 i miliardi di venture capital investiti nelle aziende climate tech. 16,3 di questi solo nel 2019.
A fare la parte del leone è senz’altro il segmento dei trasporti e della mobilità, che da solo ha attirato in questi anni il 63% dei capitali mettendo a segno un aumento annuo del 151%. Si tratta di startup sui veicoli elettrici, i monopattini, il bike sharing. Ed è la Cina ad essere protagonista in questo ambito. Dei 30 unicorni di questo settore la metà sono cinesi. Se Ofo, Mobike a Hellobike dominano il bike sharing e la micro-mobility, NIO, altra azienda cinese che disegna e produce veicoli elettrici è tra i player più importanti del sotto-segmento più importante, quello dei veicoli a bassa emissione, appunto.
A dispetto della credenza che si trattasse quello di uno dei Paesi meno sensibili in campo ambientale la Cina ha superato da sola tutta l’Europa quanto a investimenti in startup climate tech, con 20 miliardi sui 59,5 complessivi del periodo 2013-2019, contro i 7 europei, e i 29 americani. Shanghai e Pechino dopo San Francisco sono sono i due principali hub di investimento in questo grande settore a livello mondiale.
Anche se fino ad ora in questo ambito l’Europa sembra essere rimasta indietro, con solo l’11,7% degli investimenti, contro il 49,3% di USA e Canada e il 32,95 della Cina, nel Vecchio Continente il venture capital sembra riuscire a muoversi in modo più diversificato.
Se per esempio ben il 98,5% dei fondi cinesi si concentra nel segmento dei trasporti e della mobilità, lasciando meno delle briciole al resto, in Europa a questo vanno il 36,4% dei capitali investiti, mentre il 23,5% si sono diretti verso l’energia, con la nascita di aziende che sviluppano nuove celle fotovoltaiche e batterie, e il 21,4% all’ambito del food, dell’agricoltura, dell’uso del terreno. Per esempio verso imprese che si occupano di acquacoltura o proteine degli insetti.
È chiaro che se mancano ancora unicorni europei come quelli cinesi già citati o Tesla e Beyond Meat, la maggiore capacità di spaziare in segmenti diversi rappresenta certo un fattore positivo: nel caso in cui uno di questi dovesse emergere come quello più promettente magari a discapito di un altro che prima aveva attirato più fondi il sistema europeo grazie alla propria diversificazione non subirebbe scossoni, anzi.
Il venture capital dei fondi e dei privati possono quindi alleggerire il peso sulle finanze pubbliche delle indispensabili innovazioni nel campo della transizione climatica, dimostrando che può anzi essere un’occasione di creazione di reddito ed occupazione e non solo fonte di nuove tasse e di costi aggiuntivi. E tuttavia non si deve fare l’errore di pensare che gli Stati e il settore pubblico in generale non debbano continuare a rivestire un ruolo fondamentale.
Da un lato perché tra i primi 20 maggiori investitori nell’ambito del climate change ci sono tre fondi governativi, Temasek, di Singapore, il francese Bpifrance e InnoEnergy, dell’Unione Europea, che hanno capito l’importanza di utilizzare risorse pubbliche non solo per una gestione diretta dei progetti collegati all’attenuazione del climate change, ma anche come leva per la crescita di imprese che possono svolgere lo stesso lavoro del pubblico alla lunga in modo più efficiente e produttivo.
Dall’altro lato perché sono gli Stati quelli che possono e devono impostare le regole e quelle policy in tema di decarbonizzazione o limiti alle emissioni. Si tratta di un ruolo che non può essere demandato alle aziende, e che se per alcuni può sembrare come un laccio allo sviluppo in realtà ha anche la funzione di stimolare l’innovazione e la produttività.
Le scoperte tecnologiche nascono anche dall’attività di ricerca e sviluppo svolta per ottemperare a un regolamento più restrittivo, per ottenere un maggiore livello di produzione con maggiori emissioni, per esempio. Basti pensare a quello che è accaduto nel settore dell’automotive nei decenni.
E spesso anzi tali vincoli non producono solo un efficientamento, ma la nascita di materiali, carburanti, colture, fonti di energia o di alimentazione completamente nuovi. Ed è proprio in tale occasione che sono le startup a essere protagoniste, ancora più delle grandi corporation già esistenti.