C’è un passaggio del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza scritto dal governo e da poco inviato alla Commissione Europea che sembra essere passato piuttosto inosservato.
È quello che riguarda uno degli impatti che questi fondi, ben 248 miliardi includendo anche il Fondo complementare governativo, avranno sulla nostra economia, almeno nelle intenzioni dell’esecutivo. Si tratta dell’effetto sulla nostra bilancia commerciale.
Nell’ultima crisi finanziaria terminata nel 2013 è stato proprio un saldo finalmente positivo ad attenuare la recessione che abbiamo subito. Le performance della domanda internazionale, molto migliori della nostra interna, hanno fatto sì che la crescita delle esportazioni divenisse decisamente superiore di quella delle importazioni.
Questo aiuto esterno si è riproposto nel 2020, l’anno della peggiore caduta del PIL dal Dopoguerra, dell’8,9%. Quando il saldo commerciale, già uno dei più ampi d’Europa, si è espanso di ben 75 miliardi, passando da 561 a 636 miliardi. Si è trattato dell’esito di un calo dell’export più ridotto di quello dell’import, pur essendo entrambi intensi.
Ebbene, nei prossimi anni per effetto degli investimenti legati al Next Generation Eu la situazione cambierà. Il Pnnr prevede che le importazioni entro il 2026 saranno di ben il 4,7% più alte rispetto allo scenario base (quello senza piano europeo), mentre le esportazioni risulteranno solo del 0,4% maggiori.
Come lo stesso governo sottolinea saranno proprio i progetti messi in cantiere a rendere necessari maggiori acquisti dall’estero. Si tratta soprattutto di quelli nel campo della mobilità sostenibile, dell’aumento dell’uso di energia rinnovabile, del potenziamento delle infrastrutture di rete, dell’incremento della produzione di idrogeno, nonché dei progetti di costruzione di linee di alta velocità ferroviaria.
Dovremo non solo acquistare materie prime necessarie all’attività di costruzione e all’edilizia, ma anche strumentazione scientifica, dotazioni informatiche, mezzi e tecnologie per la mobilità elettrica, come le batterie, e molto altro ancora.
Questo significa due cose:
Proprio l’attività progettuale che l’Italia si trova a intraprendere per divenire più moderna, connessa, e green mette a nudo l’inadeguatezza della nostra economia.
Sia per quanto riguarda i beni materiali sia i servizi immateriali, software inclusi.
Appare ancora più chiaro che senza l’intervento del settore pubblico, e in particolare del settore pubblico europeo, non sarebbe stato possibile pensare di modernizzare il Paese come il Pnnr si propone di fare.
Il solo settore privato non basta negli USA, in Germania e in Francia, tantomeno in Italia, dove non sono solo i capitali a scarseggiare, ma anche proprio la capacità produttiva.
E così per la prima volta da decenni il pubblico non solo si prende la briga di immettere centinaia di miliardi nell’economia, ma, ed è questa forse la vera novità, di indirizzarla, indicando in quali settori dovranno essere spesi.
L’elenco delle priorità che Bruxelles ha imposto in fondo è piuttosto stringente, anche più di quanto l’Italia avrebbe voluto. Perché i settori in cui i fondi andranno investiti sono ben delimitati, non si tratta di soldi a pioggia, e sono settori piuttosto lontani da quelli in cui noi abbiamo una specializzazione, un vantaggio comparato.
Ed è esattamente questo il punto. L’imposizione a investire in bus elettrici, in una scuola completamente cablata e informatizzata impone che lo Stato a un certo punto aiuti anche a produrli questi autobus, se non si vuole continuare solo a importare, magari da Paesi esterni all’Unione Europea.
Si chiama politica industriale. È stata invocata davanti al Pnrr appena pubblicata dalla CGIL ma in questo caso può mettere d’accordo anche le imprese.
Non si tratta della vecchia politica industriale invocata da chi voleva che lo Stato intervenisse nell’economia salvando settori maturi e aziende decotte.
Bensì di quella che è stata avviata in altri Paesi europei che non a caso, forse non tutti lo sanno, possiedono una quota dell’economia nazionale decisamente superiore a quella in mano allo Stato italiano. E non parliamo di piccoli Paesi scandinavi, ma di Francia e Germania hanno partecipazioni che valgono il 48,5% e il 42,2% del proprio PIL, molto più del 29,9% in mano all’Italia, che viene superata in questo senso anche dal Regno Unito e dalla Spagna, che possiede asset per il 36,4% del PIL.
Si tratta di quote di grandi aziende strategiche nel settore dell’energia, delle telecomunicazioni, della chimica, nell’industria aerospaziale (basti pensare a Airbus).
Sono spesso imprese che sono state fondate con fondi e management pubblico per colmare il gap tecnologico che in un settore nuovo e ad alta intensità di capitali in cui privato non poteva operare con la stessa rapidità e disponibilità di fondi.
Naturalmente è diverso effettuare un’operazione del genere e intervenire in aziende mature che dopo decenni si trovano al termine del proprio ciclo di vita. È la differenza tra politica industriale e assistenzialismo e carità di Stato. Nel primo caso si aumenta la produttività, nel secondo si indebita solo ulteriormente un Paese.
Naturalmente non è necessario né possibile né desiderabile che lo Stato diventi proprietario di una parte eccessivamente ampia del sistema produttivo, soprattutto in Paesi in cui ha già dimostrato di non avere grandi capacità manageriali come l’Italia.
La politica industriale può tradursi anche in un indirizzo preciso di fondi e incentivi. Che poi è quello che molti Paesi hanno intrapreso nell’ambito delle startup. Ultimamente anche l’Italia.
Focalizzarsi su quelle che potrebbero essere strategiche perchè nei settori su cui il Next Generation Eu si concentra sarebbe probabilmente una mossa strategica efficace.
Per fortuna vi sono già segnali che si stia andando in questa direzione.
Nel Pnrr appena pubblicato, all’interno della missione sulla transizione ecologica, la più importante, un capitolo è dedicato allo sviluppo di una leadership industriale internazionale nelle filiere della transizione. Nello specifico nell’ambito delle energie rinnovabili, delle batterie, dell’idrogeno, dell’industria hi-tech, perchè l’Europa diventi autonoma dal resto del mondo e l’Italia abbia un ruolo decisivo in questa politica industriale.
Insieme è prevista anche la creazione di un Green Transition Fund (GTF) che dovrà investire in fondi di Venture Capital con focus green, incubatori e acceleratori e startup con progetti coerenti con la transizione ecologica.
Il problema è che per finanziare tutto ciò sono stati messi a disposizione 2 miliardi, di cui 250 milioni per il GTF.
È ancora troppo poco, evidentemente, ma vi è già un cambio di paradigma. Che dovrà naturalmente accompagnarsi a tutta l’attività di rafforzamento delle competenze, che è un gigantesco capitolo in cui l’Italia ha bisogno di recuperare terreno. Anche perché se è vero che non possiamo limitarci ad importare della tecnologia ma dobbiamo metterci a produrla, è anche vero che dobbiamo anche imparare e insegnare come produrla. Ma questa è un’altra grande storia.