Si dice che nella Silicon Valley il ritocco di chirurgia estetica per sembrare più giovani vada particolarmente forte tra gli imprenditori non tanto per motivi prettamente estetici, ma finanziari. Vogliono cancellarsi qualche anno per essere più attrattivi di fronte agli investitori, che quando si tratta di decidere dove collocare i propri fondi, tendono ad avere un bias a favore dei più giovani, in particolare se parliamo di startup.
Non sappiamo se la storia della chirurgia plastica sia vera, se sia qualcosa di così diffuso, ma una cosa è verissima. La narrazione sul mondo delle startup, in USA come in Europa e in Italia le associa sempre alla gioventù, a ragazzi squattrinati ma geniali che dalla stanza di college o dal garage sviluppano un’idea che cambierà il mondo e intorno alla quale sarà fondata una nuova azienda di successo. L’epopea di Steve Jobs, Mark Zuckerberg e altri contiene questi elementi.
Ma la realtà è un po’ differente
Varie ricerche concordano sul punto, una delle più ricche, effettuata da studiosi del MIT, del NBER (National Bureau of Economic Research) e dell’U.S. Census Bureau, rivela che mediamente i founder delle startup, includendo tutte quelle che avevano almeno un dipendente, hanno 42 anni. Quindi un’età decisamente superiore a quella immaginata a molti.
Ma ancora più interessante è il fatto che volendo guardare solo alle startup di maggior successo, ovvero il 0,1% con la miglior crescita, l’età si alza ulteriormente, fino a raggiungere i 45 anni.
E ancora di più, a 46,7 anni, se consideriamo l’insieme delle imprese che hanno avuto le exit migliori.
I ricercatori sottolineano che anzi la correlazione tra età e exit di successo è positiva e lineare, ovvero la probabilità di averne una aumenta al crescere degli anni del fondatore almeno fino alla sessantina. Di fatto un founder di 50 anni ha statisticamente il doppio delle possibilità di vedere acquisita o realizzare una IPO vincente rispetto a uno di 30. Sono doppie anche le probabilità di fondare un’azienda che si collochi tra quelle che cresceranno più delle altre 99,9%.
E contrariamente a quanto si potrebbe pensare ciò vale soprattutto per le aziende Hi-Tech, tra cui l’età media dei fondatori nel complesso è anche più alta, di 43,2 anni.
Quello che emerge conferma quanto appariva evidente in altri studi e nell’esperienza di molti insider, ovvero che anche nel mondo delle startup l’esperienza è fondamentale, potrebbe essere definita come un capitale sociale indispensabile. Un capitale che come quello monetario tende ad accumularsi nel tempo.
E per esperienza naturalmente si intendono le competenze, non a caso, ne abbiamo parlato, hanno più successo le startup fondate da chi è fuoriuscito da una grande azienda in cui si investiva in modo pesante in ricerca e sviluppo, e questo spiega anche i dati riguardanti le imprese High Tech
Ma si può intendere anche quell’insieme di conoscenze del sistema, delle persone, che consente di muoversi meglio nei primi momenti molto delicati dell’azienda. È più facile che un 40enne abbia potuto costruirsi un network nel tempo rispetto a un 25enne.
Vi è però anche un’ulteriore variabile che si unisce all’equazione. È l’intervento o meno di capitale di rischio, il venture capital. Negli USA appare chiaro che se da un lato le startup caratterizzate dalla presenza di venture capital sono in media fondate da imprenditori più anziani, di 42,4 anni (e anche qui cade uno stereotipo riguardo il bias degli investitori), dall’altro l’età media dei founder di quelle aziende che oltre ad essere di maggior successo hanno anche goduto dell’intervento decisivo di investor è in realtà più bassa di quella media, 43,4 contro 45.
Vuol dire che il venture capital può veramente essere decisivo nell’ accelerare i tempi. Quelli del seed e della crescita.
L’età media dei fondatori delle aziende appoggiate da venture capital che riescono ad avere anche le migliori exit è invece più alta, di 47,9 anni. Probabilmente questo indica anche che c’è meno fretta nel vendere in chi riceve più capitali, anche se si sta crescendo, e lo fanno, con successo, soprattutto i founder più anziani. Il che appare perfettamente logico
Questi dati tuttavia non dovrebbero apparire come motivo di dissuasione verso giovani che sentono di poter fondare un’azienda innovativa partendo da un’intuizione, da un’idea.
È stato sottolineato da molti come al contrario l’esperienza fatta in una startup, l’impatto con il mercato, con gli investitori, può solo essere utile e formativo, anche per chi dovesse fallire, in termini di competenze apprese o di relazioni strette, e questo vale sia per i fondatori che per i suoi collaboratori. Di più, è utile all’intero sistema, perché stimola l’innovazione e la concorrenza nei settori in cui la startup viene fondata, che sia di successo o meno.
Piuttosto quello che sembrano dirci queste ricerche è che non è mai troppo tardi, ma che anzi, forse più professionisti, comodamente sistemati nella multinazionale in cui lavorano, sono manager, quadri, se credono di poter introdurre un’innovazione utile e remunerative nel settore in cui operano, dovrebbero prendere il coraggio a quattro mani e buttarsi.
In fondo, fatte le debite proporzioni, in Italia abbiamo già dei precedenti. Negli anni ‘70 e ‘80 abbiamo assistito allo sviluppo della Terza Italia, quella fatta di piccole imprese create spesso da operai e tecnici delle grandi imprese del dopo-boom che realizzavano veri e propri spin-off, a volte con l’accordo delle aziende di provenienza, piccole imprese che diedero vita ai distretti produttivi, facendo nascere un modello di sviluppo studiato in tutto il mondo, fatto non solo di terzisti, ma anche di imprese che nonostante le dimensioni erano in grado di creare brevetti in nicchie specialistiche e raggiungere la leadership mondiale, che in alcuni casi hanno mantenuto fino a oggi.
L’imprenditorialità in Italia c’è più che altrove, e non è troppo tardi, in tutti i sensi, per metterla a frutto.