Quale prova migliore vi è del successo di qualche iniziativa, di qualche nuova tendenza, del fatto che le aziende private, in particolare le grandi corporate, si interessino a essa?
Lo abbiamo visto in diversi casi, anche molto disparati tra loro.
A maggior ragione lo possiamo osservare in ambito economico. È il caso della finanza alternativa, e nello specifico del Venture Capital, che è cresciuto ovunque fino ad attirare soggetti che in passato non erano stati tra i più interessati, le grandi aziende, appunto.
È così che è nato il Corporate Venture Capital (CVC), ovvero la forma di investimento tramite la quale un’impresa già affermata immette capitale in una startup, partecipando al suo capitale sociale e quindi ai futuri utili o ai frutti di una exit.
L’investimento può anche avvenire attraverso un veicolo, un fondo controllato dalla grande azienda che acquista le quote, ma l’elemento fondamentale è che la portata innovativa della startup in questo caso è tale da generare un alto grado di fiducia in una corporate, al punto che questa decide di “metterci la faccia” in modo diretto.
L’interesse non è esclusivamente finanziario, tra l’altro, spesso si tratta di una forma di Open Innovation con la quale la grande azienda “alleva” e fa crescere una piccola che ha sviluppato soluzioni innovative che possono esserle utili. La corporate ha tutto l’interesse a non assorbire la startup perché la sua spinta creativa si esplica al meglio se autonoma, se i founder rimangono liberi di agire.
La grande azienda, che beneficia dell’innovazione creata, le dà le risorse utili a mettere in atto i propri progetti, e spesso anche qualcos’altro. Una ricerca di Primary Research mostra come per l’89% delle startup vi sia un apporto di advisory, per l’84% si aprono le porte di un nuovo network, con la possibilità di stringere contatti con possibili clienti e fornitori cui solo una corporate con nome e una certa affidabilità potrebbe accedere. Non solo, nello scambio reciproco è incluso il 71% delle volte anche l’accesso a competenze specialistiche che possono trovare solo nella corporate, e nel 59% migliori canali di marketing e comunicazione.
Lo stesso report mostra come infatti solo nell’8% dei casi la molla che spinge al CVC sia solamente la ricerca di rendimenti finanziari. Nel 28% si tratta del raggiungimento di obiettivi strategici e nel 65% di un mix di entrambi i fattori.
Per il 69% un driver importante è l’innovazione del business model che può apportare la collaborazione con la startup, per il 64% quella tecnologica.
I dati dimostrano che sono sempre di più coloro che credono al successo di questa relazione tra startup e grandi aziende.
Se nel 2016 a livello mondiale gli investimenti di Corporate Venture Capital erano stati 2.128 nel mondo, per un valore di 32,7 miliardi di dollari, sono saliti 3.356 e 70,1 miliardi nel 2020, e sono esplosi nel 2021, quando i 4.661 deal stretti sono valsi ben 169,3 miliardi, più del doppio di un anno prima.
Vi è quindi stato anche un incremento del taglio medio salito da 21,8 a 36,3 milioni, ulteriore segno della crescita della fiducia in questa forma di investimento. In particolare il CVC è più utilizzato delle altre modalità di Venture Capital per quanto riguarda gli interventi in stadi più avanzati dello sviluppo di una startup: il 54% dei 169,3 miliardi investiti nel 2021 ha riguardato Series B e oltre, contro il 25% medio nell’ambito del VC.
Sostanzialmente il Corporate Venture Capital si propone come fonte di finanziamento alternativo soprattutto per quelle imprese che hanno già passato la prima fase di seed e hanno ricevuto l’approvazione del mercato.
E in Italia? Anche se come ogni altra tendenza nel mondo della finanza alternativa pure questa è arrivata nel nostro Paese in ritardo rispetto a quanto accaduto nel resto del mondo occidentale, ora anche da noi si assiste a un incremento del CVC.
L’indice Corporate VeM (Venture Capital Monitor) della Liuc, composto dal numero di round con la presenza di una corporate e dal rapporto tra round con presenza corporate e quelli complessivi è cresciuto da 286 a 625 in un un solo anno.
A determinare questo grande aumento è stato il balzo del numero dei deal, cresciuti da 40 a 90, più che del controvalore, che pure è passato da 277 a 319 milioni di euro.
Si nota in questo caso un andamento in controtendenza rispetto al panorama internazionale, con un rimpicciolimento dei tagli. Non a caso il 30% dei deal avviene nella fase di seed, il 58% in quella di startup e solo il 12%, contro il 27% del 2020, in una successiva.
Per la maggior parte dei casi, il 66%, si tratta di co-investimenti con altre realtà del mondo del Vc, principalmente fondi, ma la percentuale di investimenti svolti in totale autonomia è passata dal 28% al 34% tra il 2020 e il 2021.
A livello settoriale è stato il Fintech ad essere stato protagonista della maggioranza relativa dei deal, 24, contro i 23 che sono avvenuti nell’ambito dell’ICT, all’opposto di quanto accaduto nel 2020, quando avevano prevalso i deal con startup tecnologiche.
Come andrà nel 2022? Il primo trimestre dal punto di vista più generale del Venture Capital si è chiuso ancora positivamente, se paragonato allo stesso periodo del 2021, sia in Italia che in Europa, con progressi, a livello di valore, del 35% e del 57%.
E anche il CVC non è stato da meno. Tra gennaio e marzo di quest’anno gli investimenti di questo tipo hanno toccato i 69,6 miliardi di dollari di controvalore, distribuiti su 1.500 deal.
Tuttavia i segnali e le previsioni di un rallentamento, a causa dell’impatto della guerra in Ucraina e dell’aumento dei prezzi a livello internazionale, cominciano a emergere. Sono stati in parte coperti, nei primi 3 mesi dell’anno, dal fatto che molti dei deal chiusi erano stati avviati e contrattati nei mesi precedenti.
Il valore complessivo degli investimenti in Venture Capital, anche se è cresciuto rispetto al trimestre corrispondente del 2021, è però diminuito rispetto all’ultimo dello stesso anno.
Il Corporate Venture Capital sta seguendo lo stesso trend, ma più lentamente, e tra i motivi vi è anche il fatto che a livello globale il CVC si occupa di deal di taglio maggiore, che, esattamente come avviene alle aziende di maggiori dimensioni, riescono a subire meno i contraccolpi della crisi rispetto a quelli che hanno come protagoniste startup più piccole.
Probabilmente un peso in questa reazione più lieve è anche il fatto che buona parte degli innesti di capitale sono fatti anche per motivi strategici di lungo periodo, come si è detto, per acquisire tecnologie e posizionamenti in mercati innovativi. Sono scelte che anzi puntano anche a mettere una corporate proprio al riparo della congiuntura.
Sembra essere un motivo in più per accogliere positivamente l’emergere di questa nuova forma di fare investimenti. E il fatto che i deal di CVC siano arrivati a essere il 14% di quelli complessivi di VC rispetto al 7% dell’inizio del 2021 è un’ulteriore conferma.