L’UE al lavoro per una moda sempre più sostenibile

Redazione BacktoWork 18/05/2022

L’Ue mette il mirino sul mondo della moda e, in particolare, sul Fast Fashion, suo sottoinsieme “veloce” e low cost, con l’obiettivo di rendere il settore più ecosostenibile

Cibo, casa, trasporti e poi lui, il mondo dell’abbigliamento, dall’alto del suo quarto posto in Europa tra i “fattori” che provocano l’impatto più deleterio sull’ambiente, soprattutto per via delle emissioni di gas serra. Di quali dimensioni stiamo parlando? Di qualcosa come un miliardo di tonnellate, cioè circa il 2 per cento delle emissioni totali. 

Ma a incidere c’è anche qualche altro elemento: l’elevato consumo di acqua, in primis, oltre che quello delle materie prime, trattate, peraltro, con l’uso di sostanze chimiche che, talvolta, possono anche essere molto aggressive.

Senza contare tutti quei pesticidi che inquinano i fiumi e i terreni vicini alle fabbriche, come pure l’applicazione di coloranti tossici o sostanze dannose e aggressive impiegate per tingere o sbiancare i tessuti stessi.

Volendo trovare una sintesi, seppur parziale, di quanto detto finora, secondo un’ulteriore prospettiva, per ogni persona nell'Ue, il consumo tessile richiede, al giorno d’oggi, circa 9 metri cubi di acqua, 400 metri quadrati di terra, 391 chilogrammi di materie prime, e provoca un'impronta di carbonio di circa 270 kg.

Alla stessa Europa tutti i numeri visti finora in questa statistica virtuale sono passati tutt’altro che inosservati, al punto da convincere i suoi regolatori a mettere in atto una vera e propria crociata per rendere il comparto più sostenibile. 

I benefici per il consumatore e i costi per l’ambiente

Ad essere finito nel mirino è stato soprattutto il cosiddetto Fast Fashion, la moda usa e getta caratterizzata da bassi costi e bassa qualità del prodotto, trasformato in un modello di business da diversi brand molto popolari.

Esso implica una produzione massiva di capi di abbigliamento venduti a prezzi molto bassi, e distribuiti e riassortiti velocemente. Con il conseguente impatto sull’ambiente.

Se, per certi versi, il fast fashion può anche essere considerato alla stregua di un processo di democratizzazione della moda, poiché offre a tutti di vestirsi seguendo le ultime tendenze a costi molto contenuti, analizzando più a fondo la questione emerge che, tuttavia, per sostenerne i ritmi, la produzione avviene di solito in Paesi dove il costo del lavoro e della manodopera è molto basso, e quindi, dove i lavoratori vengano sfruttati e sottopagati, un altro degli aspetti che si scontrano con i principi della sostenibilità. 

La storia del fenomeno 

Le prime avvisaglie di questa nuova modalità di concepire la moda risalgono ai primi anni Settanta in coincidenza con la nascita dei grandi brand globali, ma diventa popolare al grande pubblico nel 1989, in un articolo sui nuovi modi di fare business nel campo dell’abbigliamento pubblicato dal quotidiano The New York Times.

La vera e propria esplosione, tuttavia, si ebbe nella prima decade di questo decennio, quando la produzione di abbigliamento nel mondo è raddoppiata.

Tornando alla volontà europea di modificare gli assetti di questa industria, a siglare l’inizio ufficiale di questa offensiva contro la “moda veloce” sono state le parole del vicepresidente della Commissione europea e responsabile del Green Deal dell’Ue Frans Timmermans, che ha attaccato con una certa durezza soprattutto in merito all’obsolescenza programmata dei prodotti e del fenomeno della distruzione delle merci invendute. La prassi che riguarda queste ultime è di essere bruciate dopo essere transitate nei vari canali distributivi per merce scontata, e, poiché gran parte di questi vestiti è realizzata con tessuti sintetici, le sostanze rilasciate dai fumi sono piuttosto nocive.

In altre parole, quello che l’Ue intende fare con la sua EU Strategy for Sustainable and Circular Textiles è creare un nuovo impianto normativo che spinga con decisione sulla sostenibilità, in linea con una rinnovata domanda di mercato che chiede una maggiore attenzione alla riduzione degli sprechi, al riciclo e alla rivendita, in linea con la ricerca di uno stile di vita più green.

“Oggi meno dell’1 per cento degli scarti tessili diventa un nuovo tessuto, tutto il resto è rifiuto. E mentre le tecnologie per il riciclaggio avanzato devono essere ulteriormente sviluppate, migliorare il design è sicuramente il primo passo per affrontare le sfide tecniche”, ha commentato il Commissario europeo per l’ambiente, Virginijus Sinkevičius.

Dati alla mano, quel che risulta è che quasi la metà dei 26 chilogrammi di abbigliamento e biancheria per la casa che ogni anno un cittadino europeo acquista venga buttato.

Un piano articolato

La strategia europea prevede, inoltre, che i tessuti debbano avere una sorta di passaporto digitale contenente informazioni varie sul suo conto, l’indicazione di requisiti sulla circolarità e altri aspetti ambientali come la tracciabilità di sostanze pericolose.

Il prossimo step dell’evoluzione del piano sarà il suo essere sottoposto all’esame degli Stati membri che dovranno poi procedere alla negoziazione che avrà i legislatori europei come controparte.

L’obiettivo è di quelli ambiziosi: far sì che entro il 2030 l’industria del tessile europea faccia ricorso il più possibile all’utilizzo di fibre riciclate (oggi riguarda soltanto l’1 per cento del totale) ed elimini progressivamente dalle proprie pratiche produttive la distruzione dell’invenduto e l’utilizzo delle microplastiche: anche quest’ultimo è un tema caldissimo, se si considera che circa il 35 per cento di quelle che vengono rilasciate nell’ambiente provengono dai materiali sintetici utilizzati nel tessile.

Tradotto in termini assoluti, si tratta di una quantità compresa tra le 200.000 e le 500.000 tonnellate, come conferma una recente ricerca dell’Agenzia europea dell’ambiente (Eea) che attribuisce a questo settore la produzione delll’8 per cento delle microplastiche europee, dal 16 al 35 per cento nel mondo.

Sebbene la paternità dell’iniziativa sia del Vecchio Continente, è facile prevedere che il progetto possa acquisire una valenza e una dimensione mondiale, se si considera che quasi il 75 per cento del consumo europeo del ramo viene importato dall’estero.

Va detto che tutto ciò va inserito all’interno di un piano più ampio che rientra nell’insieme delle strategie dell’Ue per l’economia circolare con la quale l’Europa mira a ridurre lo spreco di risorse in diversi ambiti della vita quotidiana e che riguarderà, quindi, anche altre tipologie di prodotti, soprattutto nel largo consumo.


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